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Il mostro ed il nemico: l’India sulla strada della violenza

La dinamica che si inscrive tra masse e potere è in alcuni casi ferocemente lineare. Si incita al sacrificio e la folla muove e incendia. Poi, colta finalmente da quello che ha fatto e dalle conseguenze che da tale azione derivano si ritira in silenzio. Il mostro è morto, dunque si può tornare a vivere. Le recenti vicende in India ne stanno rivelando tutti gli elementi - a tratti analoghi a quelli italiani - e il costo è un sacrificio umano alla dea violenza.

Era iniziata ben prima che gli italiani si attivassero sul beneamato tema della lotta alla violenza sessuale. Con tutte le caratteristiche dello shock collettivo, il recente caso di stupro aveva già occupato le principali testate indiane in lingua inglese, Hindustan Times e Indian Express. Le proteste, come risaputo, hanno raggiunto livelli insoliti per un caso del genere. Certo, nulla di più sociale del crimine di violenza sessuale, ma c’era qualcosa di più. L’India vive ancora i forti disagi che comporta inevitabilmente un modello emulativo di potenze perlopiù distanti dalle proprie radici. Accade per l’India come accade al Giappone: il rischio è quello di non ritrovarsi in una mescolanza di culture, ma in un stato permeato dal peggio del paese emulato, oltre che della storia nazionale.

L’India ha trovato davanti a sé non solo la potente incognita di un governo corrotto e di residui culturali passibili di accentuare i divari sociali (anche se, giova dirlo, secondo Indice di Gini la sua posizione al riguardo sarebbe praticamente analoga a quella di Gran Bretagna e Italia). Ha dovuto affrontare anche le contraddizioni tra libertà e controllo della rete, ottenendone un monito da parte di Human Rights Watch. È per questo che quando la caccia al mostro stupratore ha raggiunto un livello non più tollerabile il governo indiano si è subito attivato.

Perché se di fronte ad un crimine intollerabile subito la tendenza è di creare un circuito cumulativo che alimenta la violenza fino a provocare la morte del soggetto, che ormai non è più che una bambola sacrificale che deve essere eliminata per riportare la coabitazione sociale ad un’equilibrio sostanziale, nel momento in cui questo circolo si lega a rivendicazioni di tipo politico allora la situazione rischia di diventare esplosiva. Il mostro può trasformarsi nello strumento atto a simbolizzare una volontà di epurazione della classe dirigente, specie se corrotta o connivente, come sembra essere quella indiana nei confronti della questione femminile. E’ un’intera collettività che accetta sotto le apparenze il crimine in questione, ma questo la logica della manifestazione non può ne vuole dirlo, e con essa la sete di vendetta.

Si grida alla morte e alla giustizia, e probabilmente la corte indiana darà questo sanguinario contentino alla propria popolazione, così che possa essere ammansita fino al prossimo caso (tant’è che la legislazione del paese ancora prevede la pena di morte). Con l’eliminazione si procede ad estirpare il male estraneo dal corpo sano, e simbolo più chiaro di questo è il rogo. Ma anche un colpo in testa o l’impiccagione sembrano adempiere al proprio ligio dovere, o perlomeno nessuno se n’è mai lamentato.

Il punto è però che l’omicidio di stato non è che la rivendicazione della violenza stessa, una rinascita della stessa, non la sua definitiva fine. È forse per questo motivo che, in barba a tutti i sacri vincoli dell’occidente, Cattelan ha recentemente posto di fronte al ghetto di Varsavia l’immagine di un Hitler che prega alla memoria delle vittime della Shoah. Un’immagine che a molti ha ispirato un senso di disgusto. È stata in tal modo interpretata come una fuga dal negazionismo, quando invece era la confusione di fronte alla fine del mondo, dove anche agli angoli più bui della storia dell’uomo arriva un potente messaggio di redenzione.

Ma la redenzione cambia più chi la concede che chi la subisce, quindi la scanzonata allegria di vedere il mostro che si dimena gridando nel fuoco va pigramente per la sua strada. Anche l’Italia - convintamente civile - se n’è concessa una (e probabilmente di più). Quindi i colpevoli non solo di stupro, ma soprattutto di “deprimere il sentimento nazionale” devono morire. Devono oltrepassare l’orizzonte del visibile e del sensibile, scomparire, incenerire sul rogo degli equilibri sociopolitici. Non è morte, quanto annullamento, a proposito di Hitler e della Shoah. E senza che vi sia un’autorità da indicare con sguardo colpevole una volta che ci si faccia trovare con le mani nella marmellata di sangue. Perché finito lo spettacolo il legame tra le masse si spezza, e permea la vergogna dell’avvenuto, appena in tempo per non poterci fare più nulla. Naturalmente all’autorità ciò non interessa minimamente, anzi al limite tale iniziativa viene diretta - seguendo il dettame di Machiavelli - non verso un nemico da combattere, ma uno da annientare, quello che non ha neanche la possibilità di difendersi. Cosa succede però quando il mostro (isolato, spostato, deviato) si trasforma improvvisamente in nemico (protetto, sociale, plurimo)? Allora tutto cambia, e la posizione dell’esecutivo indiano vira decisamente su altro.

Quando è divenuto chiaro che oggetto della protesta era anche il governo, allora un nuovo tradizionale nemico è apparso a scudo dell’equilibrio sociale. Alcuni soldati indiani sono stati brutalmente uccisi nell’area del Kashmir, probabilmente da parte di truppe pakistane (il territorio è storicamente conteso tra le due nazioni). Almeno questo afferma il governo indiano e le sue fonti. La notizia ha fatto scalpore, rovesciando nel baratro del nazionalismo la rabbia e le tensioni accumulate dagli indiani in questi ultimi giorni. L’esercito di Nuova Delhi ha già risposto a “colpi non provocati” con altri colpi, mentre Hafiz Muhammad Saeed, fondatore dell’organizzazione terroristica Lashkar-e-Taiba ha accusato l’India di voler destabilizzare il Pakistan, dichiarazione colta con straordinaria finezza da parte del giornale Hindustan Times. Certo da ciò non ne deriva inderogabilmente una premessa di future escalations nell’area, ma è sicuramente indicativo del potere che gli impulsi nazionalistici possono avere nel creare coesione sociale, quando invece si presume che sia la coesione a generare patriottismo (un termine vecchio, insensato e intellettualmente storpio).

Se insomma il mostro può rivelarsi suo malgrado uno strumento di destabilizzazione, un comune nemico contro il quale spedire qualche migliaio di giovani a massacrare e farsi massacrare sembra avere pur sempre il proprio charme. Una soluzione per tutte le stagioni, a volerla dire in questa maniera. Sembra quasi si parli dell’Italia. Il punto è però che, qualunque cosa ne dicano le allegre comari che sicuramente daranno un tocco di esotico all’odierna lotta contro i romeni che stuprano, una civiltà che non solo è incapace di qualsiasi forma di perdono, ma in maniera più perversa sfoga in rogo le pressioni che potrebbero invece spingerla ad un passo avanti è una civiltà paraplegica, capace al massimo di ispirare pietà, perché alle proprie maledizioni -contro le quali non si può fare nulla- aggiunge l’immagine cruda di un ritirarsi anche dell’intelletto in quella stasi che ne fa un vegetale della storia.

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