• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Istruzione > Il modello dell’università statale è a fine corsa, ma l’università privata (...)

Il modello dell’università statale è a fine corsa, ma l’università privata sarebbe un rimedio peggiore del male

Prevedendo le obiezioni di quanti, nel leggere le mie critiche all’università statale, modello che ritengo superato, hanno pensato che volessi fare un elogio dell’università privata, avevo già predisposto questo pezzo. Ripeto: l’alternativa non è fra insegnamento statale ed insegnamento privato. Per fortuna la realtà ha molta più fantasia.

Dico subito che l’università privata sarebbe un rimedio peggiore del male, perché ha molti dei difetti di quella pubblica e ne aggiunge altri di suo.

In primo luogo, l’università privata è concettualmente sbagliata: ogni attività economica prevede costi e benefici, per cui se è vero che i costi non debbano superare i benefici, però è anche vero che è sbagliato attendersi benefici ulteriori rispetto allo scopo principale da perseguire. Il beneficio dell’insegnamento universitario (come della scuola in genere) è l’incorporazione del sapere sociale nel lavoro vivo e la ricerca orientata all’interesse collettivo; dunque, lo scopo e l’utilità sociale e non il profitto dell’imprenditore.

Ma, si obietterà, ci sono studenti le cui famiglie sono in grado di pagare i propri studi, per cui avremmo lo stesso risultato senza far spendere soldi allo Stato. Ma, in questo modo, opereremmo una selezione sulla base del patrimonio o del reddito, non dell’intelligenza o della capacità si studio degli allievi. Escluderemmo sicuramente ottimi talenti e restringeremmo la scelta solo ad un campione sociale e non avremmo alcuna mobilità sociale o comunque solo molto poca. E questo non è nell’interesse della società, soprattutto di una società democratica che, ripeto, per sua natura è meritocratica (sempre che si tratti di vera meritocrazia e non di selezione di classe travestita da meritocrazia).

Ma, direte, come spiegare che le maggiori università del mondo sono private, quindi producono ottimi laureati ed anche profitti. Intanto si tratta di classifiche fatte da americani, sulla base di criteri fissati da loro e per i quali le prime dieci università sono 9 americane ed 1 inglese, tutte private. Ma andrebbe tenuta presente anche l’incomparabile quantità di mezzi a disposizione (denaro, contatti con la stampa e le imprese, ecc.) e la lunga storia alle spalle. Magari una università indiana non ha la stessa storia ma ha un presente più brillante di tante altre. Un docente di Pisa ha dimostrato che, se si valutassero i risultati proporzionalmente ai soldi a disposizione, nella Top ten, 8 sarebbero italiane. Magari anche questo è un metodo un po’ disinvolto e dovremo riparlarne, ma basta a dimostrare come certe classifiche siano abbastanza relative.

Comunque non c’è dubbio che Harvard, il Mito Cambridge siano ottime università. Solo che diverse di esse non sono affatto in attivo (a cominciare proprio da Cambridge) ed, in genere, non producono profitto (se teniamo da parte la ricerca e consideriamo solo la didattica e le tasse degli studenti). Le tasse sono altissime, ma non mancano generose borse di studio.

Ma allora, perché un imprenditore decide di investire in una attività che non gli dà profitto? Mecenatismo? Sì, in parte, ma se così fosse non potremmo basare la continuità e lo sviluppo del sistema universitario su quello che, comunque, è un flusso di denaro volontario che, come tale, può venir meno in ogni momento. In realtà queste spese si giustificano con la necessità delle classi dominanti di perpetuare la loro egemonia sociale, controllando la formazione del sapere, la mobilità sociale, la formazione ideologica delle future classi dirigenti eccetera.

Una motivazione poco condivisibile da un punto di vista democratico. Dunque, l’esempio americano non dimostra nulla.

In secondo luogo, l’università privata non è affatto indenne da condizionamenti politici esterni, sia per l’intreccio di interessi fra stato ed imprese, sia per gli specifici condizionamenti della politica nei confronti degli atenei. Inoltre la proprietà che sta dietro le università private, non è affatto neutrale ideologicamente e, pertanto, tende ad assumere corpo docente culturalmente ed ideologicamente affine ed ha interessi concretissimi che difende anche tramite l’insegnamento. Per la stessa ragione, la proprietà privata tende a condizionare il corpo docente nel suo insegnamento.

Insomma: pensate che un’università cattolica recluti e tolleri un docente di filosofia che abbia posizioni eterodosse in materia di bioetica, omosessualità, eutanasia ecc? Un’università promossa da un gruppo di aziende connesse in vario modo alla produzione di energia nucleare, accetterebbe un docente di fisica antinucleare? Un’università promossa da un gruppo di società finanziarie, dedite al più spericolato capitalismo raider, accetterebbe un docente di economia marxista? Silvio Berlusconi, se avesse una università sua, accoglierebbe un docente di diritto costituzionale che sostenesse certe tesi in materia di conflitti di interesse e di limitazione del possesso di reti televisive? E una università sostenuta da imprese petrolifere che investono nel fracking, cosa direbbe di un docente di geologia che sostenesse i rischi sismici di quella pratica?

Dunque l’università privata garantisce sicuramente molto meno la libertà di insegnamento di quanto, nonostante tutto, non faccia l’università statale. E, infatti, la spunta alla privatizzazione delle università e la centralizzazione dei finanziamenti a riviste ed istituti di economia orientati in senso neo liberista, ha avuto come conseguenza nefasta la fine del confronto fra scuole di diverso indirizzo e la dittatura del pensiero unico liberista.

Né si può dire che l’università privata porterebbe alla fine del corporativismo e della gerarchizzazione dei docenti, fenomeni con i quali convive benissimo, anzi che sono perfettamente funzionali. Proprio perché, nonostante tutto, una impresa privata tende a massimizzare i profitti (o almeno contenere e socializzare le perdite), è molto più conveniente strapagare pochi direttori di istituto totalmente fedeli alla proprietà, che controllino una legione di docenti e ricercatori precari e sotto pagati, che avere una distribuzione più equa del monte salari nell’università. Per la stessa ragione, la tendenza naturale sarà quella a ricorrere a forme di didattica meno costose (lezioni on line, prevalenza delle lezioni frontali sui laboratori, limitata pratica del tutorato ecc) rispetto ad altre migliori ma più costose. La didattica di eccellenza sarà riservata alle poche università destinate a formare i livelli alti della dirigenza, mentre nella media dei casi le università private tenderanno a risparmiare offrendo una didattica mediocre se non scadente.

Dunque l’università privata avrebbe (come in effetti ha negli Usa) la funzione di stratificare il sistema riproducendo le gerarchie sociali e geografiche. Altra conseguenza non desiderabile.

Nel caso italiano che è fra quelli che hanno il valore legale del titolo di studio, peraltro, questo avrebbe un’altra conseguenza poco simpatica: la fungaia di diplomifici che per due soldi conferiscono lauree a buon mercato di studi.

Infine, una università orientata al profitto, sceglierebbe anche i corsi da privilegiare sulla base della domanda professionale del momento, trascurando quelle dedicate a profili professionali destinati ad un successo probabile ma lontano nel tempo e difficili da proporre agli studenti.

Dunque: università privata? No grazie. Non ne parliamo nemmeno.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità