Il giovane poeta arabo che critica l’islam e viene aggredito. In Europa
La storia di un poeta di origine araba, appena diciottenne, spiazza la Danimarca multiculturale e interroga l’Occidente sul rapporto con l’islam. È Yahya Hassan, figlio di palestinesi che sono migrati in Libano e si sono stabiliti nella città di Aarhus, in Danimarca. La sua vita è difficile, come riassume Il Corriere: cresce in una famiglia violenta, a 13 anni interrompe la scuola, viene affidato ai servizi sociali ma si risolleva quando scopre rap e poesia. Scrive un libro con i suoi versi taglienti e quel libro diventa presto un best seller, con 35 mila copie vendute in patria.
Da ateo dichiarato, denuncia in versi l’ipocrisia e il conservatorismo della comunità di origine. Mostra come sia difficile per le nuove generazioni svincolarsi dalle rigide regole della comunità, persino in Europa, dove purtroppo finiscono per crearsi dei ghetti cementati dall’appartenenza religiosa e dalle tradizioni. Senza mezzi termini, nelle sue poesie critica l’islam “che rifiuta di rinnovarsi”, quelli che “tra le preghiere del venerdì e il Ramadan girano con un coltello in tasca”, le famiglie che vietano ai figli di fare sport con i danesi, gli “stupidi che fanno jogging e pregano, poi rubano, bevono e vanno a letto con le ragazze danesi”, quelli che “in prigione si redimono leggendo il Corano e ricominciano da capo”.
Intervistato da Politiken, si è detto “fottutamente arrabbiato” con la generazione dei suoi genitori che non intende integrarsi. Dopo la sua partecipazione a un programma televisivo DR Deadline in ottobre, ha ricevuto numerose minacce di morte e per questo ha ottenuto la protezione delle forze dell’ordine. Il caso letterario e sociale è arrivato Oltreoceano, tanto che Hassan è stato intervistato dal Washington Post.
Prevedibilmente, si è inimicato non solo quelli pronti a gridare alla “islamofobia”, ma anche la comunità da cui proviene, attirandosi aspre critiche. Alcuni, come l’Islamisk Trossamfund, hanno sostenuto che la religione non c’entra. Guarda caso, proprio l’organizzazione islamica che gettò benzina sul fuoco quando divampò la polemica sulle vignette pubblicate dal Jyllands-Posten, come evidenziava un fuoriuscito apostata molto attivo all’epoca, Ahmed Akkari. Hassan dal canto suo sembra rendersi conto che le sue poesie e denunce possono essere strumentalizzate dai razzisti.
Il dibattito suscitato da Hassan è destinato a proseguire, perché il poeta è stato anche aggredito da un integralista islamico. L’aggressore lo ha colpito alla testa urlandogli “Sei un infedele, devi morire” mentre si trovava su una banchina della stazione di Copenhagen. Si tratta di Isaac Meyer, ventiquattrenne noto come Abdul Basit Abu Lifa e già condannato nel 2007 per terrorismo, poi rilasciato nel 2010. Meyer, fermato per aver ferito Hassan e reo confesso, rischia tre anni di carcere.
Il caso Hassan, giovane apostata che denuncia le problematiche della sua stessa comunità, ci mette di fronte in maniera spiazzante e da un’altra prospettiva alle difficoltà dell’integrazione e alla persistenza del conservatorismo religioso e culturale nelle comunità di migranti. Tutto ciò non si può archiviare come espressione di razzismo (si veda anche la recente autodifesa del settimanale satirico Charlie Hebdo su Le Monde), ma deve far riflettere sulle contraddizioni del multiculturalismo. Un approccio che esalta la comunità ma che finisce per creare tanti ghetti identitari, in cui le libertà individuali sono limitate pesantemente.
Comunità da cui si può uscire spesso solo a caro prezzo, talvolta a rischio della vita o subendo un ostracismo generalizzato, specie quando sono i capi religiosi a esserne leader. Anche chi osa criticare la religione della propria famiglia si trova a dover subire angherie e persino violenze. Tutto ciò è contrario a principi fondamentali di convivenza e alla civiltà dei diritti umani che dovrebbe essere garantita da uno stato laico. Ma casi del genere si ripetono periodicamente: le organizzazioni islamiche non hanno mai niente da dire in merito, oltre a limitarsi a sostenere che la religione non c’entra nulla o gridare al razzismo?
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