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Regno Unito, salario minimo ma non troppo

In UK, il salario minimo è stato sinora un indubbio successo ma un mercato del lavoro sempre più tirato potrebbe causarne l'estinzione. E, con esso, quella di molte imprese minori.

In Regno Unito, da questa settimana, il salario minimo orario, il cosiddetto National Living Wage (NLW), verrà aumentato di quasi il 10 per cento, toccando 11,44 sterline l’ora e raggiungendo la soglia dei due terzi delle retribuzioni mediane del paese. Si tratta del coronamento di un obiettivo fissato nel 2019, e che colloca il Regno Unito tra i paesi con la soglia di salario minimo più elevata rispetto alle retribuzioni mediane.

UNA STORIA DI SUCCESSO

Introdotto nel 1999 come salario minimo dal premier Tony Blair e cresciuto costantemente sino al 2015 quando il Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha deciso di rinominarlo National Living Wage e portarlo al target del 60 per cento delle retribuzioni mediane. I risultati sono stati in complesso positivi, consentendo di contrastare la povertà lavorativa senza causare aumenti di disoccupazione, anche grazie a un mercato del lavoro piuttosto tirato, sulle cui condizioni sta incidendo anche la limitazione di immigrazione causata dalla Brexit.

Ora pare che il governo abbia modificato il mandato della Low Pay Commission, che formula le proposte di rivalutazione del salario minimo, chiedendo di non superare per il momento la soglia dei due terzi delle retribuzioni mediane e di accelerare evitando contraccolpi negativi sull’occupazione le rivalutazioni dei giovani lavoratori, che si collocano su percentuali inferiori rispetti ai salari mediani.

I nuovi criteri sono stati accolti con sollievo dalle imprese, soprattutto quelle operanti in settori ad alta intensità di manodopera e non automatizzabili, tipicamente quello dell’ospitalità (pubblici esercizi, alberghi, ristoranti), che hanno visto negli anni forti aumenti dell’incidenza del costo del lavoro sui ricavi. Un imprenditore attivo nei pub, sentito dal Financial Timesafferma che per lui questo rapporto è passato, in quarant’anni, da circa il 10 per cento al 36-38 per cento.

Molti imprenditori minori hanno problemi nel gestire l’aumento dei costi del lavoro, al punto che alcuni sono costretti a ridurre gli orari di apertura e riorganizzare i turni, non potendo trasferire i maggiori costi interamente sui clienti. Alcuni pubblici esercizi di minori dimensioni, in alcune parti del paese, si trovano a chiudere due o tre giorni a settimana.

Ma ci sono anche altri effetti collaterali, non piacevoli per i lavoratori. Che in alcuni casi si trovano a dover essere spremuti in termini di mansioni e copertura del servizio ai tavoli, circostanze riportate dall’articolo del Financial Times. Spesso il tutto avviene con un taglio delle ore lavorate, vero o fittizio, che poi è il modo classico con cui domanda e offerta di lavoro raggiungono l’equilibrio. Ma ci sono anche casi di abuso, come minori rimborsi di costi vivi ai dipendenti, come citato nel caso di una lavoratrice di servizi di cura alla persona, a cui non viene rimborsato il carburante per la prima uscita del giorno.

LA PRESSIONE DEI COSTI SULLE IMPRESE

Il punto vero è però un altro, più sottile. Il “successo” del salario minimo si evince soprattutto sulla base dell’evidenza che il numero di persone che si trovano in quel regime in Regno Unito sta diminuendo. Il che semplicemente significa che il mercato del lavoro, per alcuni lavori meno qualificati, è talmente tirato che spesso i datori decidono di pagare più del salario minimo pur di ottenere le persone necessarie.

Pertanto, volendo inquadrare il tutto secondo una logica di mercato, visto che non si può fare altrimenti, i datori di lavoro di settori ad alta intensità di personale poco o nulla sostituibile con automazione (almeno per ora, poi vedremo i robot giapponesi e sudcoreani da ristorante diffondersi in giro per il mondo), si trovano a subire una compressione dei margini che nei casi delle realtà più fragili rischia di portarli fuori mercato.

Il tema è molto rilevante: ci sono situazioni e settori che rischiano di subire dissesti economici e di uscire dal mercato, con le conseguenze del caso ad esempio in termini di gettito fiscale cessante. E simili situazioni sembrano destinate a prodursi con frequenza crescente, data la situazione demografica e le resistenze degli elettorati all’aumento di immigrazione. Immigrazione che porta con sé sicuramente effetti benefici ma anche costi, come ad esempio quelli legati alle pressioni al rialzo sui costi dell’abitazione.

IL SALARIO MINIMO COME CALMIERE?

In sintesi, date le dinamiche demografiche, potremmo presto scoprire che il salario minimo si è trasformato in una sorta di calmiere delle dinamiche di mercato, e la fuoriuscita dal medesimo avverrebbe in conseguenza del mercato medesimo.

Ma, senza portarci troppo avanti, pensiamo a una situazione del genere nel nostro paese, dove le imprese spesso tendono a essere piccole o addirittura ultra-marginali, cioè che sopravvivono solo grazie a valvole di sfogo non esattamente dentro un quadro di legalità specchiata e forma delle norme pienamente rispettata. Non vorremmo trovarci con programmi elettorali in cui si promette il sussidio a simili attività economiche, per evitarne la chiusura. Sarebbe un circolo vizioso infernale, tra illegalità e mantenimento in vita di legioni di aziende zombie. Oppure potremmo leggere di promesse elettorali di bonus per i clienti di bar e ristoranti, sempre per sostenerne la domanda a fronte di costi del lavoro in forte aumento.

Ci sarà modo di osservare se questa dinamica avrà modo di affermarsi. Almeno, più di quanto già non stia accadendo. Ma sin d’ora possiamo dire, anche in questo caso, “è la demografia, stupidi”.

Foto di Thomas Jan Kaczynski da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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