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Il giorno di Karol Wojtyla

Riflessioni di un credente “difficile” su Giovanni Paolo II e sulla fede.

Per chi come me abita un mondo scientifico, profondamente razionale, parlare di fatti religiosi non è facile. Ma quando si sente il desiderio di farlo è perché la pulsione è forte, irresistibile, perché il magma ribollente dell’inconscio zampilla da ogni dove perforando lo strato spesso della logica. Per noi la fede non scorre liscia, lineare, come un fiume tranquillo di moto laminare ma è tortuosa, difficile, a volte incerta, per nulla scontata, è piuttosto una conquista. O forse sarà perché Giovanni Paolo II ha caratterizzato con i sui ventisette anni di pontificato una bella parte della mia vita. Forse perché quelli della mia generazione hanno visto compiersi la mirabile parabola della sua opera e ne sono rimasti affascinati, credenti e non. 

Oggi la chiesa è lacerata da chi, da un lato, la critica per non essere capace di interpretare la modernità, il ritmo del mondo, l’uomo tecnologico e dall’altro invece, da chi la accusa di non rispettare la tradizione. Wojtyla, forse, è stato il papa che, più di tutti i moderni, ha saputo farne la sintesi, ricucirne la frattura. Da un lato il credo che ha retto incondizionatamente il suo papato è stato la ferrea convinzione che la ragione deve essere assoggettata alla fede e questo non lo pone certo nel solco della modernità, ma dall’altro ha saputo usare la modernità della tecnica come nessun altro, i media e la comunicazione per irrompere sul palcoscenico del mondo come da giovane calcava quello del teatro. Avevamo le scarpe di tela quando la sua elezione calamitò lo schermo con la figura forte e atletica della sua persona, una rottura quasi fisica col passato, un tratto che lo ha contraddistinto per una lunga parte del suo operare esaltato dal personalissimo carisma quasi soprannaturale. Media e personalità quindi lo hanno reso un mito per la tribù dei cattolici, coagulandolo attorno alle adunate oceaniche, ai papa boys, e benché tutto questo non abbia nulla a che vedere con la voce intima e silenziosa della fede, certamente a quegli uomini Giovanni Paolo ha riconsegnato la speranza, la voglia e la possibilità di cambiare, di accettare anche la sofferenza del mondo più povero e dimenticato.

Un uomo che, vittima dei regimi comunisti, il comunismo lo ha combattuto davvero con forza e perseveranza mai visti prima, un uomo che aveva capito che comunismo e cristianesimo hanno alla base il più grande principio universale dell’umanità e cioè che tutti gli uomini sono uguali, una fratellanza quindi che ci accomuna al di là del colore della pelle e della condizione sociale e proprio su questo assunto Giovanni Paolo ha fondato il più grande progetto di riconciliazione fra est e ovest, sostituire cioè l’ideologia di regime con la fede cristiana, far risorgere in Dio “morto” nella dittatura con il simbolo salvifico della croce, simbolo di fede e al tempo stesso di libertà. Il crollo dei regimi comunisti ha però frantumato l’ateismo di stato operandone la mutazione genetica e come la fenice, è risorto nel secolarismo, nel consumismo, nel qualunquismo dell’uomo moderno ormai presenza costante delle variegate pieghe delle coscienze. La solidità dei principi cristiani si è dissolta in una società liquida e terrena, priva di riferimenti superiori e priva di quelle forti credenze che, secondo Giovanni Paolo, dovrebbero condurre l’uomo fuori dai pantani della storia.

Un uomo comunque che la storia l’ha scritta davvero, che ci ha fatto riflettere e commuovere nei giorni della sua sofferenza fisica e morale, nei giorni in cui ormai conscio della sua imminente dipartita si è fatto egli stesso simbolo della caducità e della resurrezione. E quella storia, che si creda o no, ancora non è finita.

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