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Il giornalismo di immersione virtuale: raccontare la guerra in Siria in 3D

La realtà virtuale potrebbe essere un modo per capire quello che succede nel mondo e uno strumento utile per i giornalisti. Almeno questo è quello che pensa Nonny De la Peña ricercatrice alla Southern California’s Annenberg School of Journalism.

Il progetto “Project Syria” va in questa direzione: attraverso un casco dotato di sensori 3D lo spettatore si ritrova immerso in una strada di Aleppo, un minuto prima che una bomba esploda.

Si tratta dell'immersive journalism, ovvero il tentativo di rendere lo spettatore (che in questo caso sarebbe il lettore o il fruitore) parte della notizia, in modo da avere un'esperienza quasi diretta dell'evento. 

Le immagini che vedete sono tratte da materiale documentario (video e foto), integrate con ricostruzioni in 3D. Lo spettatore non solo si trova sulla scena e la vede, ma la “segue” perché, come in un videogioco, decide dove andare e cosa guardare.

Il “giornalismo di immersione virtuale” offre una sensazione di presenza molto forte che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere molto più profonda di quella di uno spettatore al cinema o davanti alla Tv.

De la Peña aveva già sperimento questa tecnica con due progetti, uno su Guantanamo, “Gone Gitmo", e un sulla fame a Los Angeles, “Hunger in Los Angeles”.

Sono molti gli investimenti negli strumenti per potenziare la realtà virtuale sono vivi e vegeti: Facebook ha comprato, per due miliardi, Oculus Rift, una sorta di occhiale/schermo per migliorare la fruizione del 3D. Ora il costo di un simile strumento si aggira intorno ai 300 euro, ma è probabile che si crea un mercato il costo si abbassi. 

Dal punto di vista metodologico, invece, si pongono invece alcune questioni: puntare sull'emozione e l'empatia è compito del giornalismo? Oppure il giornalismo dovrebbe usare gli strumenti che le nuove tecnologie mettono a sua disposizione per fare la cosa contraria: permettere di capire razionalmente, contestualizzare, rendere comprensibile? 

 

 

 

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