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Il fiore prezioso della democrazia, il bene raro della libertà

 di Laura Taraborrelli

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

(Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo)

La democrazia è un'aspirazione universale, sostenevano Bush e Blair.

Più prosaicamente la democrazia è l’aspirazione di tutti gli uomini che ambiscono a una vita più sicura e libera, in una società che sa condividere il benessere e amministrare la giustizia, in cui ciascuno ha facoltà di esprimere la propria opinione e di determinare il corso della propria esistenza e quella dei propri figli.

Il sogno di un popolo sovrano che governa se stesso accompagna l’uomo da duemila anni, è rimasto sopito per secoli e si è risvegliato solo duecento anni fa con la rivoluzione americana; nella seconda metà del novecento, miracolosamente, è risorto dalle ceneri di una Europa distrutta dalla guerra e ha messo radici in paesi devastati, segnati dalle iniquità e dagli stenti. Il fiore prezioso della democrazia è spuntato in paesi come la Germania, l’India, il Sudafrica nonostante lo scempio del nazismo, la piaga della povertà, le ferite dell’apartheid. E poi è dilagato in giro per il mondo, grazie alla liberazione delle colonie e al disgregarsi delle confederazioni.

Nel 2000 Freedom House rilevava 120 stati democratici al mondo su 192 monitorati: il 63% del totale. Un risultato sorprendente.

A partire dal 2000 qualcosa si è inceppato: la strada della democrazia si è fatta tortuosa, con interruzioni frequenti e brusche inversioni di marcia. La libertà è tornata ad essere un bene raro.

La prima grande delusione è arrivata dalla Russia: dopo il crollo del muro di Berlino, la democratizzazione della ex Unione Sovietica pareva un processo irreversibile e, invece, l’ascesa al potere di Putin ha di fatto ridimensionato la democrazia, screditandola, delegittimandola e svuotandola di significato. Ha salvaguardato la forma a fronte di un sostanziale azzeramento del diritto: tutti possono votare, purchè votino Putin; tutti possono esprimersi, purchè esprimano consenso. E sulla scia della Russia sono dilagate altre dittature edulcorate in paesi come il Venezuela, l’ Ucraina, l’Argentina.

La seconda delusione si è concretizzata nella guerra in Iraq: doveva essere una guerra di liberazione, si è rivelata un fallimento ideologico e umano. La democrazia è stata subordinata alla lotta armata, il suo senso più profondo si è smarrito nelle perversioni e nelle brutture del conflitto, il fine ultimo dell’intervento è stato frainteso e strumentalizzato: un intervento spesso ricondotto alle mire imperialistiche degli Stati Uniti, accusato di aver generato instabilità e di non aver prodotto alcun risultato duraturo.

La terza delusione si è delineata in Egitto nel 2011: nel corso della primavera araba l’euforia della rivolta di piazza ha lasciato il passo allo sconforto, il dissenso non ha saputo produrre un regime stabile e progressista, e, anzi, ha consegnato il paese all’anarchia, all’estremismo, all’avidità senza freni.

In questi ultimi 15 anni anche le democrazie più giovani hanno perso smalto, cedendo terreno alla corruzione, all’autoritarismo o più banalmente agli interessi particolari: è accaduto in Sudafrica, in Turchia, in Thailandia, tanto per fare degli esempi.

Nell’ultimo periodo alle vicende geopolitiche si sono sommate le contingenze economiche.

La crisi economica cominciata nel 2007 ha generato sfiducia e disincanto, oltre che profondo disagio sociale: i cittadini hanno assistito, nonostante le rassicurazioni delle rispettive democrazie, allo scempio di una politica incapace e arruffona e allo scandalo di un sistema bancario pronto a tutelare e premiare se stesso, malgrado tutto.

Mentre l’occidente annaspava nella risacca di una situazione economica stagnante se non recessiva, la Cina cresceva con una rapidità disarmante, raddoppiando il proprio tenore di vita più o meno ogni dieci anni. La Cina antidemocratica ha fatto del controllo sui propri cittadini una vera ossessione, ma a quegli stessi cittadini ha saputo offrire un orizzonte di sviluppo apparentemente illimitato. La Cina che cresce in modo imperioso fa apparire l’Occidente come una realtà invecchiata e ripiegata su se stessa. A fronte di uno sviluppo economico così vorticoso, la democrazia viene rappresentata come una sovrastruttura ridondante e inefficace, immobile e superata, capace di complicare le cose semplici, banalizzare i processi decisionali, teorizzare all’infinito senza costrutto. Al disordine, al caos, all’inefficienza di una democrazia impoverita e sfiancata, la Cina oppone un regime non democratico, ma vincente e promette ai suoi cittadini una prosperità senza cadute.

Per contro le democrazie mature appaiono sempre meno convincenti: Stati Uniti ed Europa sono vittime delle lobby, dei partiti, degli interessi di parte, dell’idea che tutto, anche la democrazia, può seguire le leggi del mercato. Queste democrazie sono afflitte da problemi strutturali: pressate dall’alto da organismi sovranazionali (il Fondo monetario, l’Organizzazione del commercio, l’Unione Europea) che limitano la discrezionalità dei governi nazionali; assediate dal basso da micropoteri che tendono a sfaldarle e frammentarle. Soprattutto minate dall’interno dall’inerzia di quegli elettori che dovrebbero difenderle come il dono più prezioso e che , invece, si accontentano di vivere alla giornata, senza visione strategica. Elettori impigriti, attaccati a uno Stato da cui dipendono e che, allo stesso tempo, delegittimano e disprezzano.

La crisi della democrazia ci insegna che rovesciare un regime è molto più facile che dar vita a un governo stabile e affidabile e che gli ideali sfolgoranti della rivoluzione devono poi concretizzarsi in strutture organizzate, condivise, equilibrate. Costruire queste strutture è un processo lento e faticoso e richiede un lavoro paziente, prolungato, a volte frustrante. La rivolta di piazza, con le sue tragedie e i suoi trionfi, è solo il seme iniziale. Poi il meccanismo va tenacemente oliato, calibrato e perfezionato. Ridimensionato mediante meccanismi di controllo e contrappeso affinchè non ceda alle tentazioni di un maggioritarismo becero e indiscriminato. Rinnovato e rinfrescato in modo che possa allinearsi con le attese e le opportunità del contesto di riferimento. Alleggerito e semplificato affinchè gli uomini che ne sono parte possano governare e governarsi restano sempre fedeli ai propri ideali e responsabili delle proprie azioni.

La democrazia nella sua forma più limpida e stabile è figlia di un processo di delega misurato e meditato, in cui le forze gemelle del globalismo e del localismo si intrecciano e si integrano, in una commistione feconda di leadership dall’alto e condivisione dal basso. Affinchè il dono prezioso della libertà venga coltivato assiduamente quando è fresco e conservato con attenzione nella maturità.

Per la promozione, la difesa e la cura di questo meccanismo potente e imperfetto, uomini coraggiosi si battono quotidianamente contro i “predatori della libertà”, in difesa dei più elementari diritti umani, primo fra tutti il diritto di espressione e informazione.

Al di fuori della democrazia l’informazione è plagiata, censurata, punita: stritolata negli ingranaggi della violenza, della rappresaglia, del conflitto di interesse. Nel migliore dei casi soffocata dall’immobilismo, dal vuoto legislativo, dalla arbitrarietà.

Chi fa informazione mette in luce le storture dei regimi e le debolezze degli uomini, chi la censura ferisce la società nel suo insieme e si colloca per lo meno in una zona d’ombra di connivenza e complicità.

Il rapporto annuale di Reporter senza Frontiere mostra un mondo profondamente diviso.

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Da una parte ci sono i paesi nordici o il Canada capaci di creare un ambiente fecondo per la libera circolazione delle informazioni; all’altro capo, ultimi su 179, paesi in cui l’informazione è censurata, ricattata e punita.

I peggiori esempi arrivano da Corea del Nord ed Eritrea che sono di fatto prigioni a cielo aperto per i loro popoli; da Siria, Somalia, Iran e Cina che stanno conducendo una lotta mortale contro l’informazione; da Cuba, Sudan e Yemen che fanno della repressione e della censura una scelta programmatica.

Timidi segnali di miglioramento giungono da realtà in via di consolidamento come la Birmania o l’Afghanistan in cui, se non altro, non si registrano più episodi di violenza e detenzione arbitraria; allo stesso tempo rovinose cadute coinvolgono realtà insospettabili come il Giappone che ricorrono alla censura e all’occultamento quando il mondo le osserva e le giudica.

I paesi teatro di rivolte e cambi di regime, dai quali ci si aspetterebbe una progressiva liberalizzazione delle informazioni, sono in realtà avvitati in una spirale di repressione e occultamento, preda di governi instabili e spesso arbitrari impegnati più a blandire che a riformare. Succede in Egitto, Tunisia, Libia in cui la repressione è ancora in corso, ma anche in Marocco, Algeria, Giordania e Arabia Saudita in cui le riforme sono solo la manifestazione esteriore di un tentativo di sedazione collettiva.

Anche i paesi tradizionalmente democratici, finora considerati modelli di riferimento, mostrano segni di sfilacciamento: laddove non ci sono regimi autoritari, il pluralismo dell’informazione soccombe comunque alle difficoltà economiche e alle pressioni politiche. Gli interessi particolari si antepongono al bene comune, l’ambiente sociale si svilisce, i conflitti si acuiscono e gli organi di informazione si snaturano.

Laddove i media tradizionali soccombono alle logiche di regimi repressivi, il web diventa un luogo unico e insostituibile di discussione e scambio, motore della contestazione e della mobilitazione democratica, spazio in cui le società civili rinascono e si sviluppano.

La tecnologia permette di raccogliere nuovi e diversi tipi di informazioni, di documentare le violazioni dei diritti umani, di catalogare le ingiustizie, di raccontare storie e fare pressione su chi è responsabile delle violazioni o su chi può fermarle. I social network e la rete permettono agli attivisti locali, armati magari solo di uno smartphone, di un account Twitter e di un canale Youtube di diventare distributori globali di informazioni sulle violazioni dei diritti umani. E di sollecitare l’azione.

Eppure anche i “cittadini della rete”, sempre più creativi e solidali, sono soggetti a censura, arresti, intimidazioni, sorveglianza e schedatura: la resistenza si diffonde e si organizza, i regimi reprimono e zittiscono. Anche su questo fronte il mondo si spacca in due: se la Finlandia sancisce il diritto universale dell’accesso a Internet, altri paesi bloccano, filtrano, rallentano, oscurano, imbavagliano con il preciso obiettivo di stabilire improrogabilmente ciò che la gente deve sapere. Cina, Iran e Vietnam sono anche su questo fronte vere prigioni a cielo aperto per gli attivisti del web, ma anche Arabia Saudita, Birmania, Corea del Nord, Siria, Tunisia (per fare degli esempi) mostrano una profonda intolleranza verso i dissidenti e attuano misure drastiche per zittire la loro voce.

Venezuela e Messico sono un esempio eclatante di come la repressione possa passare soprattutto e prima di tutto attraverso la lotta all’informazione.

In Venezuela si sta attuando una campagna implacabile di censura e screditamento dei mezzi indipendenti di informazione. Durante i suoi 14 anni di governo Chavez ha sistematicamente imbavagliato i giornalisti accusandoli di essere il braccio armato di poteri economici avversi, con l’obiettivo di creare una egemonia informativa capace di zittire qualunque dissenso: ha ritirato licenze, tagliato fondi, chiuso emittenti, approvato norme restrittive. Il suo successore Maduro si è rivelato più sottile e più aggressivo: ha acquistato canali televisivi per mettere i mezzi di informazione nelle condizioni di non nuocere, ha creato un sistema di censura che di fatto ha azzerato la libertà di stampa e di parola, ha screditato giornalisti e mezzi di informazione nazionale e internazionale rendendo il loro ambiente di lavoro un vero campo minato.

Il Messico dal canto suo è stato classificato nel 2013 come il paese più insicuro per il giornalismo: i reporter sono stati vittime di minacce e aggressioni, spesso da parte dello stesso governo (300 episodi di violenza e intimidazione in un anno). Nelle apparenze il governo ha espresso solidarietà nei confronti dei giornalisti e dedicato risorse alla loro protezione; nei fatti ha mostrato immobilismo e totale assenza di volontà politica. Le dichiarazioni di buona volontà non hanno prodotto alcun risultato e le leggi sono state perfezionate per essere ignorate; peggio ancora l’illegalità è sfumata nel lecito e, nella zona di confine tra crimine e buon governo, le responsabilità si sono rimescolate e confuse. I delinquenti conclamati hanno trovato nelle istituzioni connivenza se non complicità e i giornalisti che hanno tentato di portare alla luce queste zone di ombra hanno pagato con la vita.

In definitiva possiamo dire che la libertà di espressione è una delle prime richieste dei popoli in rivolta, una delle prime concessioni dei regimi transitori e una delle prime realizzazioni, anche se molto fragili, delle rivoluzioni. Certamente rappresenta una delle conquiste più preziose per i popoli che ambiscono a determinare attivamente il corso della propria esistenza.

Oggi, nel 2014, Freedom House rileva 122 stati democratici al mondo su 195: siamo ancora al 63% – come 15 anni fa – ma molte certezze sono state scardinate, molti cambiamenti sono ancora in corso e molto è ancora da fare.

Nel rapporto annuale di Reporter senza Frontiere l’Italia è al 57esimo posto per merito (o per colpa) di una cattiva legislazione che ancora non depenalizza la diffamazione e di istituzioni che ripropongono periodicamente e pericolosamente “leggi bavaglio”. E vanta la poco onorevole presenza tra i 38 predatori della libertà di stampa per merito (o per colpa) di una criminalità organizzata che continua a combattere come nemici i giornalisti che vogliono sapere e far sapere.

Il 3 maggio è stata la Giornata Mondiale per la libertà di stampa: forse, come dice un proverbio venezuelano, l’unico modo di combattere è continuare a combattere.

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.197) 3 agosto 2014 01:28

    Bel articolo ma mi puzza un po’. Si possono fare molti discorsi ma me ne viene uno soltanto. La stampa e la televisione in Italia ha formato le menti sull’assassinio di Aldo Moro incolpando le BR e inculcando il termine "anni di piombo".

    Adesso emergono incongruenze in quel racconto in cui ci sono agenti dei servizi segreti a controllare che il rapimento vada a buon fine e molti altri particolari emersi nei tanti articoli di giornale.

    In tutto il Sud America è andato come da noi con gli squadroni della morte. Cuba è quasi la sola eccezione da quelle parti che non ha conosciuto la devastazione per esempio dei voli della morte o dei governi fantoccio tipo quello iracheno o panamense.

    I giornali come quelli italiani remano dalle parte dove più spira il vento dei soldi e del potere che poi sono un tutt’uno. Gli USA e in generale le potenze imperialiste (per esempio la Cina) sono un forte attrattore per i giornalisti che scrivono conformemente al pensiero dominante nella loro regione perché è il modo più efficiente e veloce per portare a casa la pagnotta e per non avere guai.

    Con questi limiti non è sempre un bene avere la stampa libera soprattutto quando ci sono pressioni sufficientemente forti da parte dell’impero dominante.

    Per esempio se l’Italia fosse stata uno Stato con la stampa di regime e di tipo anti-americano e facile che l’omicidio del suo capo di governo, Aldo Moro, fosse stato attribuito a ingerenze esterne come pare probabile e avremmo avuto qualche anticorpo per difenderci da una democrazia eterodiretta.

    Etero-direzione che è presente in molti Stati che hanno conosciuto rivoluzioni fomentate dalla Stampa e da molti altri poteri che si orientano naturalmente verso il dominatore regionale.

    Di imperialismi ce ne sono stati tanti come quello Giapponese prima della seconda guerra mondiale, quello cinese attuale nella regione e quello molto più ampio americano.

  • Di (---.---.---.229) 3 agosto 2014 10:12

                    Alieni? 
    Gli americani  non sanno più che pesci prendere tempo fa ho letto su n blog che gli alieni esistono

    Dopo il fallimento del libero mercato per sottomettere il Mondo al loro volere si  sono inventati gli alieni.

    Vuoi  vedere che i loro film di fantascienza dove il mondo  viene attaccato da androidi  sono stati spot pubblicitari sul futuro.? 

    Come lo furono i film del dopo guerra proiettati nelle sale cinematografiche Italiane

    servivano al lavaggio  del cervello dei pigri . 

    Ricordo che si esaltavano   quando nei film  del vecchio west

    la cavalleria arrivava in difesa  dei (ladri) coloni che rubavano 
    le terre ai pellerossa massacrandoli.

    Questa volta il far west potrebbe essere 
    la vecchia Europa saccheggiata  dà androidi  americani. 

     
    Come si dice il lupo perde il pelo  ma non il vizio. VITTORIO
    PS fantasia ho realtà? (Ognuno  lotta come può per svegliare le coscienze anche portando gli esempi sopra  descritti che corrispondono alla realtà.)


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