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"Il figlio di Saul", se questo è un uomo

Ogni opera di creazione artistica dovrebbe contenere nel proprio valore artistico un significato; sia esso intrinseco o sia esso estrinseco. E quando si parla di un film come “Il figlio di Saul” (film vincitore dell'ultimo premio Oscar quale miglior film straniero) il significato e ancor di più lo scopo sono chiari sin dalle prime inquadrature.

La storia racconta la vicenda di Saul Ausländer ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau, il quale all'interno del campo di concentramento svolge il ruolo di Sonderkommando. Il compito di questi gruppi di deportati era quello di collaborare con i militari nazisti nel processo di rimozione dei cadaveri dalle camere a gas e di procedere poi alla cremazione dei corpi. Una volta trascorsi però alcuni mesi il destino di morte avrebbe atteso gli stessi Sonderkommando rimpiazzati a loro volta da altri prigionieri.

Un giorno, Saul all'interno di una camera a gas ritrova il cadavere di un ragazzo nel quale riconosce il proprio figlio; l'uomo riuscirà a nascondere il corpo del giovane intenzionato a dargli degna sepoltura, per questo si mette alla ricerca tra i reclusi del campo di sterminio di un rabbino il quale possa officiare la funzione funebre. Ma i dubbi che quel cadavere sia effettivamente il figlio di Saul aumentano con il procedere della narrazione, nel frattempo tra i membri del Kommando viene portata avanti l'idea inverosimile di organizzare una rivolta prima di venire sostituiti e giustiziati.

Detto della trama va sottolineata la scelta forte e marcata dell'esordiente regista ungherese Làslò Nemes di filmare rimanendo letteralmente “incollato” al protagonista. Così la macchina da presa in qualche modo si “attacca” al personaggio principale facendolo diventare un tutt'uno con lo spettatore. Nelle scene in cui seguiamo Saul inquadrato di spalle mentre si aggira all'interno del campo di sterminio non può non tornare in mente Giorgio Gaber il quale nel proprio spettacolo “Il Grigio” recitava così: “Avete mai visto le spalle di un uomo che cammina davanti a voi? Io le ho viste. Sono le spalle comuni di un uomo qualsiasi.”

E quelle di Saul sono proprio spalle comuni di un uomo qualsiasi che senza nessuna colpa si è trovato come altre migliaia di persone ad essere un "morto che cammina” privato della dignità e della libertà. Forse solo per sentirsi un po' meno comune degli altri che egli intraprende la missione di seppellire il cadavere del ragazzo; egli si appropria di un corpo senza vita, che probabilmente nemmeno gli appartiene, per esorcizzare la morte che in quel luogo è ovunque.

E così il riferimento immaginifico diventa quello della “Pietà” di Michelangelo dove al posto della madre troviamo un padre (o presunto tale); ed è proprio in uno spazio dove l'assenza di pietas è totale che la pellicola di Nemes fa alzare un urlo assordante.

Riallacciandomi all'input di partenza di questo scritto e sperando di non compiere un ragionamento fuorviante o che possa addirittura venire mal interpretato vorrei dire che “Il figlio di Saul” è un film sulla Shoah e per questo un film capace di creare discussione ma allo stesso tempo ci parla di persone private totalmente dello status di esseri umani.

Nemes è ungherese ed i prigionieri dei quali ci parla sono sì ebrei ma ancor prima sono cittadini ungheresi e non si può non pensare ad alcune scelte degli ultimo mesi di un governo come quello di Viktor Orbàn.

Il pensiero e l'azione del regista non sono altro se non che quelli di parlare di quell'immane tragedia che sconvolse il secolo scorso, però allo stesso tempo oggi che l'Europa ed il mondo intero vengono nuovamente sconvolti da un'altra tragedia come quella dei numerosi migranti che fuggono da guerre e persecuzioni, un film come questo va necessariamente oltre, perché la storia raccontata non è solo quella di Saul ma di tutti i numerosi Saul che appartengono anche al nostro contemporaneo.

E così la scelta di costruire muri dove una persona chiede accoglienza non può non farci fermare a riflettere e ogni riflessione per avere valore deve essere accompagnata dagli strumenti giusti; così questa pellicola diventa una chiave di lettura molto importante.

Ritornando allo specifico del film va sottolineato che sia il regista che l'attore protagonista (Géza Röhrig) sono qui entrambi al debutto e ciò riporta ancora maggiore attenzione alla pellicola.

Infatti Röhrig ancor prima di divenire attore è insegnante e poeta e forse la capacità di trovare dentro di sé materia da donare agli altri è stata affinata dall'insegnamento e dalla poesia. Questo elemento ha reso la propria interpretazione colma di potenza visiva che viene sublimata quando in una delle scene finali sul proprio viso compare un sorriso capace di donarci un afflato di speranza.

Volendo rimanere sul cammino della speranza, l'auspicio finale di questo mio articolo è quello che come già accaduto con “Fuocoammare” trasmesso da RaiTre il 03 ottobre 2016, anche un film come “Il figlio di Saul” possa essere mandato in onda dalla RAI, magari il prossimo 27 Gennaio giorno della memoria.

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