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Il divo (2008)

Non amo il cinema di Paolo Sorrentino (Napoli, 1970), neppure i temi che affronta con la sua scrittura mi appassionano più di tanto. Ritengo che sia uno dei registi italiani più sopravvalutati degli ultimi anni, anche se possiede tecnica e gusto per le immagini, oltre a essere un buon direttore di attori. Ero un po’ prevenuto affrontando la visione de Il divo, pellicola che ho visto per intero solo nell’onda emotiva della scomparsa di Giulio Andreotti, dopo aver letto molti articoli sulla vita di un uomo politico che ha attraversato cinquant’anni di storia italiana.

In definitiva sono rimasto abbastanza soddisfatto dai contenuti di un film eccessivamente esaltato dalla critica e premiato sino all’inverosimile, non tanto per le qualità cinematografiche (inesistenti), quanto per i contenuti documentaristici. Sorrentino ricostruisce la vita di Andreotti trattandolo come se fosse un robot privo di sentimenti, ricorrendo a un’interpretazione grottesca di Toni Servilo, truccato in maniera perfetta. Andreotti si esprime per frasi storiche, prelevate dagli aneddoti che il politico ha pronunciato nel corso degli anni, si presenta come un uomo senza scrupoli, interessato al potere, incapace di amare e di provare sentimenti, tormentato dal ricordo della morte di Aldo Moro.

Non ci stupiamo che a suo tempo Andreotti rifiutò di vedere il film a Cannes insieme al regista e che si stizzì non poco dopo averne appreso i contenuti. Nonostante tutto - come suo stile - non querelò nessuno, anche se avrebbe avuto motivi in abbondanza, lasciando piena libertà di espressione al regista. La costruzione del film sposa senza riserve le ipotesi di connivenza mafiosa di Andreotti, oltre a colpevolizzare il politico per una lunga serie di malefatte legate alla prima Repubblica, delitto Moro compreso. Punto di forza della pellicola è la somiglianza degli attori ai protagonisti della vicenda storica, a partire da uno straordinario Toni Servillo, giustamente premiato.

Bravi anche Flavio Bucci nei panni del gaglioffo Evangelisti, Carlo Buccirosso come Cirino Pomicino e Anna Bonaiuto, moglie di Andreotti. Esagerati i premi, una vera pioggia di riconoscimenti, per un pellicola che ha poco a che vedere con il cinema, ma resta un’interessante docufiction. Il difetto più evidente del lavoro di Sorrentino è la poca obiettività, perché il regista sposa una tesi e la porta alle estreme conseguenze, senza concedere nessuna attenuante al protagonista. Ne viene fuori un Andreotti - Belzebù, protagonista negativo di tutte le nefandezze della prima Repubblica, ma soprattutto un personaggio grottesco, irreale, quasi un fumetto satirico di se stesso.

Il personaggio di Giulio Andreotti visto da Sorrentino sembra una raffigurazione estrema delle vignette di Forattini, orecchie a punta, posa rigida, curialesca, grandi occhiali, mani che si muovono e corpo fermo sul tronco. Manca la poesia e un po’ di partecipazione empatica agli eventi, il risultato è sin troppo freddo per coinvolgere le spettatore. Questo Andreotti è troppo brutto per essere vero, si finisce per provare simpatia per il vero protagonista che viene fatto oggetto di critica feroce da parte del regista. Per quel che riguarda il cinema, non l’abbiamo visto. Forse i critici dal palato fine sono molto più bravi di noi a individuare lo specifico filmico. Viene da dire a viva voce: Ridateci Elio Petri.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.172) 9 maggio 2013 14:47

    Ma che cumulo di sciocchezze.

  • Di (---.---.---.104) 9 maggio 2013 17:32

    Non mi pare che sia un cumulo di sciocchezze.
    Non so dire se "il difetto più evidente .....è la poca obiettività"; bisognerebbe avere una conoscenza diretta degli avvenimenti, in tutte le sue sfumature, per poter discernere il vero, dal quasi vero e dal sicuramente non vero.
    E certo tuttavia che il personaggio ne esce esasperato, senza mezzi toni, solo un nero profondo che pare fatto più per accontentare la vulgata popolare che per tentare una lettura che lo renda vero e credibile. Il questo senso, dissento sul giudizio di "interessante docufiction".
    Se potessi dare al cineasta Sorrentino un consiglio prima di girare il film, gli suggerirei di vedersi 10 e più volte "Le mani sulla città" di Francesco Rosi; chi ricorre in modo così pesante e scoperto al trucco per evocare un personaggio reale, come in questo caso, finisce nell’avanspettacolo, non in un apprezzabile cinema di denuncia civile, come si sapeva farne negli anni ’80. L’operazione truccatura è delicata, ci vuole una sensibilità particolare nell’attore e nel regista; altrimenti si finisce per scadere nella macchietta.
    Più l’attore simula l’aspetto fisico
    del personaggio, meno lo spettatore riesce a coglierne il vero carattere.

  • Di (---.---.---.104) 9 maggio 2013 17:34

    Errata corrige: 
    come si sapeva farne negli anni ’70.

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