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Il diritto di voto

Il voto come diritto o come dovere?"Io voto sinistra o destra perché, in questa fase, mi rappresenta meglio dell’altro"; sembra questa la frase tipo dell’elettore oggi; oppure, "non voto perché nessuno mi rappresenta". Due frasi, queste, che, in termini democratici, non possono essere contestate perché sono l’affermazione di quel diritto al voto che, per quanto si dica, non è e non può essere, un dovere; che sarebbe una contraddizione.

Il voto è un diritto! Il cittadino deve avere la possibilità di scegliere se usufruire o no di un diritto. Qualora esso viene posto come dovere - cioè un qualcosa di obbligato -, finisce di essere diritto.

Il diritto di voto

Il voto presuppone una scelta fatta in base a programmi - nelle politiche riguardano prevalentemente tutto il territorio nazionale e, di conseguenza, si basano sulle tematiche in termini generali tipo: la giustizia, lo stato sociale, la scuola, la casa, il territorio in genere ecc., mentre nelle amministrative, le stesse tematiche devono entrare nel merito dell’applicazione sul territorio inteso come entità culturale e produttiva - ben definiti dove, il cittadino, possa decidere in base agli interventi che il candidato (sia esso partito o singolo) indica nel programma. Questo dovrebbe essere la prassi delle elezioni in democrazia; purtroppo non è più cosi.

Oggi, e si è potuto constatare nelle ultime amministrative, nelle campagne elettorali, si parla d’altro. Degli interventi inerenti alla soluzione dei problemi presenti sul territorio si parla poco o niente come se, una volta decise le linee generali, i problemi si risolvano automaticamente.

In questo contesto, il cittadino, che comunque vede e vive i problemi, ha tutte le ragioni di decidere di non votare; tale decisione, pur essendo in linea con i principi democratici, presenta, però, non pochi problemi per la democrazia. Il non voto, pur rappresentando, come nelle ultime elezioni, una cospicua aderenza (si parla del 36%), non essendo organizzato da nessun movimento politico, anche perché i cittadini che lo praticano sono molto etereogenei, non è rappresentato in parlamento, o nei consigli locali (regioni, province e comuni), e questo fa sì che, la percentuale dei non votanti, non ha nessuna voce in capitolo nella gestione della società. Ciò implica la loro esclusione dalle decisioni che il parlamento, o consigli, andrà a prendere in merito ai problemi.


Il non voto (cioè chi lo pratica), dunque, pur essendo maturato da un’analisi dei comportamenti politici dei partiti, finisce con l’essere emarginato dalla vita politica. E non può essere altrimenti.

Inoltre, da diritto costituzionale, diviene, sempre costituzionalmente, un mezzo, non dichiarato, della politica per escludere quanti si trovano in disaccordo con essa.

Normalmente si riferiscono ai non votanti come a persone indecise, incapaci cioè di scegliere il proprio rappresentante; incapacità che deriverebbe da un certo grado di disamore nei confronti della politica. In parte è vero, ma non nel senso che non vogliono saperne della politica, l’astensionista è una persona come chi vota, ma, a differenza di loro, crede che il voto debba essere valutato, non più in base a un’appartenenza idreologica, ma in base ai programmi, se questi non soiddisfano il suo bisogno, non vota. In questo è perfettamente in linea con il tipo di società (pragmatica) nato con la seconda repubblica.

Che senso avrebbe una società pragmatica se il cittadino venisse chiamato al voto in base a un’appartenenza ideologica e non a programmi? nessuno!!!

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