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Il crepuscolo degli dei: la superpotenza americana in declino

Una decina fa, il politologo Joseph Nye espose quello che definì "il paradosso del potere americano": mentre gli Stati Uniti hanno una forza militare prima e unica al mondo, la dinamica dell'economia mondiale e la necessità delle istituzioni internazionali li costringono a gestire un mondo interdipendente. Conclusi gli anni zero del nuovo millennio, segnati da due guerre e dalla crisi finanziaria del 2008 che hanno testato i limiti della potenza americana, lo zio Sam si trova di fronte a un nuovo paradosso: gli Usa sembrano più deboli oggi rispetto al passato, non più timonieri del mondo ma navigatori in un mare di potenze in ascesa; eppure, il primato americano è ancora indiscusso.

In altre parole, la leadership americana è lungi dall'essere rovesciata, ma è vincolata. Allora la questione va posta in questi termini: gli Stati Uniti possono ancora guidare il sistema internazionale? I Paesi emergenti sosterranno la supremazia degli Stati Uniti, collaborando con essi, o al contrario la metteranno in discussione?

La storia è sempre stata trattata come la narrazione di guerre e invasioni, sottintendendo che certi eventi siano propri di epoche ancestrali ormai concluse. Eppure, negli ultimi anni, a livello mondiale, abbiamo assistito ad un crescente aumento delle manifestazioni di cinismo. Ci viene ricordato che il potere è spietato, che gli Stati non hanno valori ma solo interessi, e che tra essere amati o anche solo rispettati, ciò che conta è essere temuti.

Il primato degli Stati Uniti si fondava soprattutto su quest'ultimo aspetto.

Alla fine degli anni Ottanta, la crescita del PIL di Washington è rallentata e i disavanzi di bilancio hanno subito un brusco rialzo. Ma il resto del mondo non se la passava meglio: il blocco sovietico era al collasso; il Giappone fresco di una crisi finanziaria si apprestava ad entrare nel suo “decennio perduto”; la Germania stava per sobbarcarsi gli immani costi della riunificazione; l'Europa, orfana della Guerra Fredda, era ancora alla ricerca di un'identità; Cina, India e Brasile erano solo delle mete turistiche e non ancora delle potenze concorrenti.

 Il primato unico americano negli anni Novanta, poi ribattezzati come “periodo unipolare”, era basato sulla stridente combinazione tra forza americana e debolezza del resto del mondo. Un connubio ideale per promuovere il brand Usa sulla scena globale, ma del tutto insufficiente per mantenerne il controllo.

L'eutanasia dell'Urss ha segnato la fine dell'ultimo vero ordine mondiale che la storia abbia conosciuto. Per Washington, Mosca non era solo un avversario, era anche e innanzitutto un partner con cui condividere la gestione del mondo. Venuta meno tale controparte, l'America si è trovata a fare i conti con tante sacche di instabilità che sfuggivano al suo controllo. Una su tutte: i taliban in Afghanistan, prima strumento nella lotta contro i sovietici e poi scheggia impazzita nello scacchiere nevralgico dell'Asia centrale.

Oggi, i problemi di una ripresa economica che stenta ad arrivare, di un deficit di bilancio in doppia cifra, di un debito pubblico in procinto di superare lo stesso PIL, sono accompagnati dalla profonda preoccupazione di Washington per i rapporti conflittuali con la Cina e, forse, con India, Russia e le altre potenze emergenti.

È ancora presto per avanzare previsioni sulle future parabole dei nuovi attori globali, per cui il quadro geopolitico rimane incerto e soggetto a passaggi mutevoli, ma è indubbio che gli eventi degli ultimi dieci anni abbiano cambiato lo scenario mondiale in modo pressoché irreversibile. Uno scenario in cui l'ex sovrana America deve porsi la questione dei rapporti con i nuovi protagonisti-antagonisti. Già la crisi finanziaria, le guerre mediorientali, il vertice sul clima di Copenaghen e le sanzioni contro il programma nucleare iraniano hanno mostrato tutte le insidie e le difficoltà del dialogo tra la potenza americana e quelle in ascesa.

Ad ogni modo, i think tank d'oltreoceano sono quasi unanimi nel riconoscere che il rischio più grande non è la concorrenza di un attore singolo come la Cina, ma l'erosione di un ordine stabile e dei sistemi e delle istituzioni vitali per gli interessi statunitensi in conseguenza di un mondo multipolare. Dalla propria posizione, infatti, gli Stati Uniti non si confrontano con un blocco rigido di potenze emergenti, ma con un complesso di voci e coalizioni dagli interessi mutevoli. In altre parole, le potenze emergenti non possono dare forma e contenuto ad nuova era, alternativa al sistema americocentrico, ma possono rallentare, complicare e in alcuni casi bloccare l'iniziativa degli Stati Uniti. Imbrigliando il primato degli Stati Uniti, pur senza metterlo in discussione.

La presa di coscienza di non essere più l'unica potenza al mondo impone un mutamento di vedute anche all'interno dell'infrastruttura sociopolitica americana. Il Tesoro Usa deve fare i conti con una spesa pubblica fuori controllo. Negli ultimi due anni il deficit di bilancio ha superato il 10%, molto al di sopra di quel 3% considerato dagli economisti come soglia di guardia. Una politica fiscale restrittiva potrà ridurlo entro il 5% nel prossimo lustro, rimanendo comunque un livello elevato. E i deficit accumulati si traducono in un debito pubblico sempre maggiore.

La riduzione del deficit è condizione indispensabile per preservare la stabilità del Paese a lungo termine. E solo attraverso uno spirito di sacrificio condiviso in tutta la nazione, nell'arco di un decennio, sarà possibile riportare in avanzo il bilancio federale.I due terzi della spesa pubblica americana sono divorati dalla difesa e dai programmi di assistenza sanitaria gratuita, Madicare e Medicaid. Considerata la palese irrinunciabilità di questi ultimi (la cui diminuzione si tradurrebbe nel suicidio politico per qualunque amministrazione), è chiaro che i tagli dovranno interessare soprattutto i fondi destinati all'esercito, emblema della potenza americana. Una prospettiva che mal si concilia con lo spirito del Paese, teso a conservare e accrescere il proprio ruolo sulla scena mondiale.

Gli Stati Uniti, nella cornice di una più ampia strategia per riassestare le proprie finanze e ridare ossigeno alla propria economia, potranno accettare alcuni tagli al budget della difesa? E in che misura il Pentagono dovrà partecipare ad un tale sforzo di riduzione del disavanzo?

Gli irriducibili fans della muscolarità americana sottolineano che la quota di bilancio del Pentagono è quasi costantemente diminuita negli ultimi decenni. Nel 1960 le spese per la difesa ammontavano all'8% del PIL, livello mantenuti per tutti gli anni Settanta. nel 1970, Sotto Reagan scesero al 6%, per poi diminuire e addirittura dimezzarsi sotto Clinton, in conseguenza della fine della Guerra Fredda. Bush l'ha riportata al 4% nel 2005 e al 4,5% nel 2007, percentuale mantenuta sotto l'attuale presidente Obama.

Tuttavia, i dati vanno contestualizzati. L'attuale spesa militare americana costituisce quasi la metà di quella globale (il 45% nel 2008, secondo le stime dell'International Institute for Strategic Studies). Inoltre, è stimata per difetto. Se comprendiamo anche gli aiuti indiretti al Pentagono, come ad esempio i fondi erogati al Dipartimento dell'Energia per forniture da destinare all'esercito, essa lievita fino al 7,5% del PIL. Infine, sebbene il bilancio militare abbia toccato il minimo storico negli anni Novanta, sia l'allora amministrazione Clinton che quella Bush destinarono somme sempre crescenti ai programmi di sviluppo, cooperazione e assistenza (le cosiddette “operazioni umanitarie”) in Somalia e Bosnia prima, e Iraq, Af-Pak poi. Infine, le guerre mediorientali, complici i tagli fiscali draconiani decisi da Bush per ragioni elettorali, sono state finanziate emettendo debito e non tramite ricchezza.

Il Pentagono è uno spreco, come qualsiasi altro mastodonte pubblico. Ma un suo ridimensionamento, secondo l'establishment a stelle e strisce, appare fuori discussione. L'inerzia della burocrazia e la politica del Congresso hanno la meglio sulla necessità di contenere la spesa pubblica. E così, nessuno si preoccupa di ridurre le sue dimensioni elefantiache, nonostante gli anacronismi della Guerra Fredda siano consegnati ai libri di storia. Rinunciare all'esercito significa rinunciare alla potenza, e rinunciare alla potenza, per gli Usa, significa rinunciare ad essere gli Usa.

L'ossessione dell'America è la paura di non fare paura. Per Washington, ciò equivale ad abdicare. E non essere primi equivale ad essere ultimi.

Quando gli storici valuteranno il ruolo dell'America nel mondo dopo gli eventi dell'11 settembre, il loro giudizio risentirà soprattutto dei (non) risultati in Iraq e Afghanistan e della crisi finanziaria del 2007-8. Mostreranno disappunto per le risorse dissanguate da due guerre inutili. Parleranno dell'era Bush come un flagello, di quella Clinton come l'età dell'oro e di quella Obama come una speranza disattesa.

Le finanze in rosso e l'ascesa di nuovi partner non permettono più all'America di fare il bello e il cattivo tempo come una volta. La necessità di assicurarsi il consenso della Lega Araba e dell'Unione Africana prima di intervenire il Libia è la prova di come gli Usa si vedano costretti a muoversi con i piedi di piombo, per non restare nuovamente impantanati nelle sabbie mobili di un presente sempre più incerto.

Il mondo è un peso troppo grande per le spalle di un gigante ferito; condividerlo con altri è l'unico modo per non restarne schiacciati. Poco importa che alla Casa Bianca ci sia ora il dialogante Obama, dopo gli sfaceli del guerrafondaio Bush. D'altra parte, un gigante è sempre un gigante, e il potere degli Stati Uniti è ancora indispensabile per l'ordine internazionale, sebbene non più sufficiente.

La perdita di potenza rappresenta la dura lezione dell'austerità per il Paese da cui partì la crisi. Ma è anche il punto di partenza per la restaurazione del primato (non ancora) perduto. Paradossalmente, la resurrezione della potenza si avrà riducendo le spese militari. Una volta risanate le finanze da un lato, e raggiunto un equilibrio nei rapporti con la Cina dall'altro, lo Zio Sam potrà tornare a gonfiare il petto.

Si sa che la politica americana è temporalmente miope, non riuscendo a programmare il futuro aldilà delle brevi scadenze elettorali, ma la ridefinizione del proprio ruolo è condicio sine qua non per un'efficace ripresa.

Ci vorrà tempo perché l'aquila americana torni a volare. Altrimenti, le non resterà che rassegnarsi ad essere il maggior azionista di minoranza del nuovo ordine globale.

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