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Il Ripasso 9: Penguin Cafe Orchestra

Simon Jeffes è un intellettuale della musica. 

O almeno lo diventa in breve tempo, dopo una veloce esperienza adolescenziale in una band dove suona la chitarra elettrica. È l’incontro con un amico che suona la chitarra classica a determinare un cambio d interessi radicale. Si iscrive all’accademia d’arte dove frequenta corsi musicali, incontra Emily, pittrice e musa di Syd Barrett (“See Emily Play“), che oltre a diventare sua compagna descriverà il bizzarro mondo di uomini pinguini delle copertine della futura Penguin Cafe Orchestra.

Ma come nasce questo nome? Si dice che, in Francia, durante una terribile infezione intestinale, Jeffes abbia un'allucinazione dove vede un mondo grigio fatto di persone assenti, silenziose, affaccendate nel loro triste quotidiano. La risposta a questo mondo è l’orchestra del caffè del pinguino, una colorata e gioiosa reminescenza (immagino) di Mary Poppins e del giardino inventato e disegnato dal meraviglioso spazzacamino, dove i pinguini camerieri si muovono frenetici e divertenti.

È questo lo spirito del progetto musicale? È anche questo, ma alla base delle conoscenze musicali di Jeffes c’è anche la musica colta, l’arte di Cage e il suo concetto di suono, la passione ante-litteram per gli strumenti giocattolo, manipolati o per quelli tradizionali suonati con frenesia infantile. Un mondo musicale pieno di suggestioni.

Dopo varie esperienze, anche in ensemble di musica di ricerca, mette insieme un quartetto composto da una chitarra elettrica, un violoncello (la sodale Helen Liebmann, con lui fino alla fine), un violino e un basso. Con questo quartetto anomalo apre i concerti anche di gruppi punk, lasciando a bocca aperta il pubblico per questa novità inaspettata. In questo periodo registra una serie di nastri che finiranno nel primo album, “Music from the Penguin Cafe”, edito da una sottoetichetta del sempre attento Brian Eno.

La prima prova, dalla registrazione ruvida e dalle composizioni eteree, è del 1976. Evidentemente Simon Jeffes ritiene, e non a torto, questo primo esperimento da risistemare e perfezionare, tanto da prendersi ben cinque anni, prima di pubblicare il secondo disco, durante il quale produce, suona e arrangia per altri (ad esempio la sezione archi di “My Way” interpretata da Syd Vicious) e recupera alcuni vecchi nastri per rimasterizzarli. Allarga l’ensemble, prepare nuovi brani e rilancia la Penguin Cafe Orchestra, dedicandosi ad essa con continuità. È il 1981 ed esce “Penguin Cafe Orchestra”.

“Numbers 1-4″ rappresenta perfettamente quella che potrebbe essere definita la “musica dalle colonie”. Le suggestioni dei tamburi africani (continente al quale Jeffes era particolarmente legato) stimolano l’immaginazioni di grandi pianure, di savane viste dal patio di una casa colonica. Spesso i titoli si rifanno a generi musicali che poco hanno a che fare con la composizione realizzata. È il caso della serie di Yodel che Jeffes scriverà nel corso della discografia della Penguin Cafe Orchestra. Sempre dal secondo, eccellente album del 1981 Yodel 2 è una ballata per fisarmonica intervallata da una nostalgica melodia per quattro, una piccola chitarra di origine sudamericana. Il melting pot per Jeffes non è nella musica, che è sua, ha la sua impronta personale, ma è nell’utilizzo degli strumenti del mondo che utilizza per i suoi fini compositivi.

Un primo breve omaggio a John Cage, mascherato da breve minuetto infantile, è “Simon’s Dream”, per piano preparato, una delle invenzioni più geniali di Cage. Fra le corde dello strumento Cage inseriva sapientemente materiali di legno e metallo per stravolgere la timbrica dello strumento, offrendo un effetto sonoro inedito. Jeffes aggiunge il cinguettare di uccellini che sarebbbe piaciuto molto al compositore statunitense.

Passano tre anni ed esce quello che diventerà l’album che rende nota l’orchestra (dall’organico sempre più ampio) al pubblico. Si tratta di “Broadcasting From Home“, che oltre a ospitare musicisti famosi come Ryuichi Sakamoto, apre con una delle loro melodie più note, “Music From a Found Harmonium”. Questo brano ha una storia: Jeffes, amante del Giappone, trova in un vicolo di Tokyo un harmonium abbandonato. Lo rimette in sesto e compone con questo dono inaspettato un brano che diverrà celebre.

Dal canone barocco per un harmonium scassato al reggae per orchestra di “Musica By Numbers”: Jeffes è un musicista spiritoso, divertente, fantasioso. E continua ad esserlo con “Signs of Life“, del 1987, dove alterna sfrenate rincorse country e bluegrass per archi suonati volutamente in modo approssimativo con raffinate composizioni che entreranno, come altre, nell’antologia delle colonne sonore per documentari, spot e film. Due esempi agli opposti: la scatenata “Bean Fields” e la melanconica, quasi drammatica “Oscar Tango”.

“Swing the Cat” è il tour-de-force per archi più demenziale e divertente che abbia mai sentito. Consigliato da ballare col proprio gatto in braccio finché non vi sfregia la faccia. La Penguin Cafe Orchestra approfitta del successo per pubblicare il classico disco dal vivo l’anno dopo (1988) intitolandolo “When in Rome”. Peccato sia stato registrato in Inghilterra. Comunque ascoltare i loro brani dal vivo è un grande piacere, vista la maestria e la delicatezza con cui eseguono il repertorio. “Giles Farnaby‘s Dream”, un’aria rinascimentale, si trasforma in una veloce rincorsa sudamericana fra gli strumenti. Un modo consueto dell’orchestra per lasciare pienamente soddisfatti gli spettatori in conclusione dei loro concerti (che infatti si spellano le mani).

Una parentesi che riguarda la mia città. Nel 1991, o forse 1992, mi sembra di ricordare, un assessore decide di assegnare a Simon Jeffes la cura della rassegna musicale estiva. All’epoca per punizione scolastica facevo il cameriere e la Penguin Cafe Orchestra veniva a pranzo e cena al ristorante dove servivo ai tavoli. Ero strabiliato, erano loro! Anche Simon Jeffes era sorpreso che un ragazzino conoscesse la sua musica. Tante chiacchiere in un inglese stentato nei brevi momenti di pausa. Quando passavano dal portico un “ciao Federico!” che mi inorgogliva, e all’ultima serata un invito per assistere al loro concerto. Mi vedono e, dal palco, mi rivolgono un saluto. Ero ancora con gli abiti da cameriere. Credo sia stato uno dei momenti più emozionanti che mi leghino a un concerto. In piazza San Giovanni in Monte esiste ancora una porta di metallo con un disegno stilizzato di un tavolo e due sedie che diverrà il loro simbolo. La loro esperienza si tradurrà in una composizione intitolata “Silver Star of Bologna”.

È il 1993 ed esce il loro album doppio “Union Cafe”. Il più raffinato, nel bene e nel male. Ancora uno Yodel, “Yodel 3″, fatto di riverberi per armonium, violino e chitarre. Poi “Organum”, con una cornamusa a cantare uno dei motivi più lirici composti da Jeffes. Un disco senza la spinta ruspante e folle dei primi album, un lavoro realizzato col cesello alla ricerca di composizioni formalmente perfette, ma che tolgono la spontaneità originaria.

“Concert Program” è un altro disco antologico, un concerto realizzato in studio, senza pubblico. La Penguin Cafe Orchestra interpreta un proprio programma per se stessa con una formazione che non è mai stata così ampia: si sono aggiunti anche l’oboe di Barbara Bolte e il trombone di Annie Whitehead, già collaboratrici occasionali in alcuni brani del passato. La consolatoria “Nothing Really Blue” è tratta dall’ultimo album e si sente il crescente interesse di Jeffes per il pianoforte, che lo porterà a incidere un album solista per questo strumento.

Niente è veramente triste. Forse Simon Jeffes sapeva già di essere ammalato di un tumore cerebrale che lo spegne nel 1997. Di lui rimane un patrimonio musicale che dovrebbe essere rivalutato per la leggerezza, la cultura e il senso dell’humor. Cosa sempre più rara. Mi piace ricordarlo con questo ultimo video; Jeffes, l’occhialuto allo strumento sudamericano cuatro, in duo con Geoffrey Richardson (a lungo membro dell’Orchestra, ex Caravan, polistrumentista sopraffino, qua all’ukulele). È bellissimo notare l’intesa e le mimiche facciali. 

Il brano, “Paul’s Dance”, è un concentrato della spensieratezza colta di Jeffes. R.I.P.

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