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Il ripasso 4: Morphine

Più che una breve biografia musicale, l’ennesimo atto di ribellione. Verso il non linguaggio di Piero Scaruffi, punto di riferimento immeritato, deragliante, nel web. E ancora di più contro i suoi tardi epigoni di Ondarock che ne copiano pedissequamente argomentazioni cadendo nelle stesse fumosità e negli stessi errori. Tentiamo di dare quantomeno un punto di vista un po’ diverso su un gruppo degli anni '90.

Morphine sono stati importanti non perché innovativi (criterio ottuso per convalidare l’opera di un artista, basato sull’equivoco del progresso come unico valore), ma anzi sono stati notevoli proprio per la loro capacità di essere riepilogatori. Hanno saputo condensare blues, country, rhythm and blues (quel genere in origine sporco e semplice, cugino ignorante del jazz), rock’n'roll, folk, tutto in una musica oscura e coerente.

I Morphine sono stati un trio fuori dagli schemi come la loro libertà di accostare strumenti inusuali. Una batteria pulsante, un sax baritono che accennava a semplici melodie e che a volte sosteneva il ritmo, un basso composto di sole due corde (con un intervallo di una quinta fra una e l’altra) e suonato come una slide guitar, oppure strumenti inventati come il tritar (una slide guitar con due corde di chitarra e una da basso), un hammond accennato, un piano suonato su due tasti, un mellotron lontano.

Dal vivo spingono parecchio, e una prova è in questo video, dove eseguono con grande slancio “You Speak My Language”dal loro primo album Good. Alzate il volume.

Una formazione che nelle intenzioni ci riporta alla semplicità della musica jazz delle origini, quando il folle Buddy Bolden suonava la sua cornetta, che portava sempre in tasca, fino a farsi uscire il senno dalle orecchie; o quando i bluesmen ai lati delle strade si facevano accompagnare da strumenti costruiti con un manico di scopa, un catino metallico rovesciato e un elastico tirato fra il palo e il bordo del catino. Suoni essenziali, ruvidi. Contenuti da duri, veri o presunti, di chi se la canta e se la suona, fra disperazione e provocazione. Questi sono stati i Morphine.

Rispetto ai precedessori c’è qualche differenza: il colore della pelle, la provenienza da Boston, città degli Stati Uniti benestanti, e alcune decine di anni di musica trascorsa nel frattempo da mettere nel loro tritacarne estetico. Il prodotto sono cinque dischi dall’odore di un portacenere traboccante di cicche spente. Ma anche di delicati paesaggi folk per acquarelli e mandolini, come “In Spite of Me” dal secondo album “Cure for Pain”.

Mark Sandman a scuola è un somaro. Il giovane pinocchio del Massachussets non ci pensa minimamente a finire il college, e vive di espedienti manco fosse un personaggio diHermann Melville. I Morphine sono il suo secondo gruppo, la sua seconda esperienza musicale, che nasce quando ha già 40 anni. E questo valga per chi crede che la maturità non sia un valore nell’arte.

Il trio è completato da Dana Colley ai sax, soprattutto baritono (ragione per la quale Sandman definirà quella dei Morphine una “baritone experience”, riferendosi anche alle tinte noir della loro musica), e da Jerome Deupree alla batteria, poi sostituito da Billy Conway fin dal primo disco.

Con loro ci si può agilmente muovere dal funky più sensuale, all’espressionismo estremo e delirante e in conclusione abbandonarsi ad una canzone semplice per chitarra e voce. Tre brani esemplari del loro eclettismo sincero, mai di maniera, tratti dal loro splendido terzo album “Yes”: “Super Sex”“Free Love” e“Gone for Good”.

 

“Good”, del 1993, considerato il capolavoro, è in realtà un disco eccessivamente radicale, asciutto, con qualche grande brano. Contribuisce a questo senso di piattezza anche la postproduzione, non attentissima. Il percorso è in crescita, l’intelligenza migliora con l’esperienza, le idee si chiariscono, la via è tracciata senza divenire mai monotona.

Esce sempre nel 1993 “Cure for Pain”, finalmente con una produzione migliore che soddisfa maggiormente l’ascolto. Il vertice arriva alla terza prova: si tratta di “Yes”, del 1995, di cui abbiamo avuto modo di ascoltare tre splendidi saggi. “Swimming” del 1997 è invece un disco deludente. La qualità e le idee del gruppo non riescono a salvarlo da una superficialità che questa volta non è sonora ma di contenuto.

Nel 1999 il gruppo suona a Palestrina, una cittadina nel Lazio, con un bel palazzone secentesco costruito sull’impianto di un antico tempio romano. Qua i Morphine sono allegramente invitati a suonare per una rassegna rock.

Sandman non fa in tempo a dire quanto sia contento di essere nella ridente località italiana che gli viene un coccolone e si accascia: infarto. Ecco un inconveniente di essere un rocker di relativo insuccesso a 48 anni. La vicenda colpisce comunque la cittadinanza, che a ricordo del musicista pose una lapide commemoratoria: ivi cadde Mark Sandman.

Ed è stata una grave perdita visto che il disco che avevano appena preparato in studio e che uscì per un soffio postumo, cioè “The Night”, non solo è bellissimo, ma lascia intravedere vie raffinate che passano attraverso uno stile compositivo da consumato chansonniere, con arrangiamenti più complessi, senza tradire l’origine del gruppo.

Sandaman era un grande talento, un fiore non completamente sbocciato. E del quale rimangono due cose: una generosa ed encomiabile fondazione per l’insegnamento musicale ai giovani e la targa commemorativa a Palestrina, Lazio. Amen.

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