• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Politica > Il Pci: l’Arcipartito

Il Pci: l’Arcipartito

Nella tradizione del movimento operaio (lasciando da parte l’esperienza del movimento anarchico) esistevano due modelli principali di partito: quello socialdemocratico e quello leninista.

Il modello socialdemocratico tedesco, che aveva avuto il suo ispiratore in Ferdinand Lassalle, era pensato per la competizione elettorale e per la costruzione di una “società nella società” che, in qualche modo, anticipasse l’ordinamento socialista, rendendo il più possibile ovvio ed indolore il passaggio dal capitalismo al socialismo.

E dunque, organizzazione di massa (nel 1913 contava 982.000 iscritti), basato su circoli locali, associazioni sindacali e di categoria, organi stampa, cooperative ed imprese economiche come osterie, alberghi, ed in particolare birrerie ecc. da cui nascerà la corrente dei “birrai di partito” dotata di un certo peso nel Partito. La Spd –che a lungo esistette come confederazione di comitati elettorali locali- aveva un nutrito apparato funzionariale (spesso costituito da quadri intellettuali, tendenzialmente radicali, in permanente polemica con l’apparato dei funzionari sindacali, di estrazione operaia e tendenzialmente moderati), ma ogni organismo, dal sindacato alle birrerie, dai movimenti giovanile e femminile alle associazioni di categoria, aveva ampia autonomia ed aveva con il partito un rapporto mediato dalla sua stampa (in particolare il quotidiano “Vorwarts”) e dalle correnti interne ad esso.

Il partito leninista, al contrario, era pensato dall’inizio come strumento che doveva dirigere l’insurrezione rivoluzionaria e che, nel frattempo, avrebbe dovuto creare una rete clandestina di agitatori in particolare nelle fabbriche e nell’esercito: anche Lenin guardava al modello della Spd e subì l’influenza di Lassalle (oltre che di Marx, ovviamente) ma dal punto di vista organizzativo guardava anche all’esperienza dei narodniki (i populisti russi).

Il partito di Lenin non era di massa (si immaginava lo diventasse nei giorni della rivoluzione, come, peraltro accadde realmente passando da 24.000 aderenti del marzo 1917 ai 390.000 di 12 mesi dopo), ma un agile organizzazione quadri ad elevata preparazione politica e di totale affidabilità (come esigeva la clandestinità), appunto: rivoluzionari di professione. Un modello organizzativo che per certi versi riprendeva quello della Compagnia di Gesù, per la sua rigida catena di comando, il costume organizzativo e per le complesse procedure di ammissione.

Il partito socialdemocratico ottenne molto successo come partito di insediamento sociale e sul piano elettorale, ma ebbe una compattezza ridotta, la sua azione di governo non si trasformò in una presa del potere ed, in definitiva, ebbe ben scarsa resistenza di fronte all’affermarsi del fascismo. Il partito leninista ebbe successo nel prendere il potere e mantenerlo, ma, al di fuori della strategia insurrezionale era poco utile e, alla lunga, rischiava di trasformarsi in una setta.

La soluzione di Togliatti fu il “partito nuovo”: un corpo socialdemocratico con una testa leninista. Il nuovo statuto aboliva tutte le restrizioni all’ammissione di nuovi aderenti, in favore di un tesseramento di massa (ed in breve raggiunse i 2 milioni di iscritti), ma il partito restava saldamente nelle mani di un apparato funzionariale rigidamente disciplinato in una precisa catena di comando che andava dal centro alla periferia. Si manteneva la regola leninista del centralismo democratico, che obbligava tutti all’applicazione disciplinata delle decisioni votate a maggioranza e proibiva la formazione di correnti interne. Pertanto il partito formava la sua linea procedendo dall’alto verso il basso: il nucleo centrale della proposta partiva dalla segreteria e veniva discusso nella Direzione nazionale (nella quale erano comunque in maggioranza i sostenitori del segretario) che elaborava il documento congressuale sottoposto alla discussione del Comitato Centrale che, a sua volta, provvedeva a formalizzare le tesi sulle quali si apriva la discussione congressuale. Per quanto il costume organizzativo del partito prevedesse che la maggioranza offrisse mediazioni con gli eventuali dissidenti (quello del Pci, fu sempre un “centralismo illuminato”), la discussione andava via via riducendo i margini di modificabilità della linea man mano che si scendeva verso il basso, per cui il confronto più aperto era quello in Direzione, dopo di che esso diventava man mano più formale. La formazione del gruppo dirigente a tutti i livelli (dalla sezione alla federazione al Comitato Centrale e poi alla direzione nazionale) e dei delegati al congresso dell’istanza superiore avveniva votando in blocco una lista approntata dalla apposita “commissione elettorale” presieduta dall’inviato dell’istanza superiore (in sezione era l’inviato della federazione, in federazione quello del centro del partito, nel congresso nazionale la commissione elettorale era approntata dal precedente comitato centrale su proposta della segreteria).

Ovviamente era del tutto raro che qualche congresso di sezione bocciasse a maggioranza una lista approntata dalla commissione elettorale (e ciò non è mai successo in nessun congresso di federazione). Per cui, la formazione del gruppo dirigente avveniva, di fatto, per cooptazione dall’alto ed era preceduto da un articolato processo di formazione del militante che partecipava a corsi di cultura politica lunghi anche sei o dodici mesi (nella leggendaria “scuola quadri” delle Frattocchie), quindi era messo in prova in qualche incarico particolare per essere poi proposto al livello dirigenziale superiore, seguendo un preciso cursus honorum, per cui l’ascesa proseguiva un gradino alla volta (sezione, federazione, comitato regionale, comitato centrale, funzionariato nazionale, poi Direzione Nazionale) e che prevedeva pochissime eccezioni in genere malviste.

Dunque, il “sistema nervoso centrale” del partito era saldamente controllato dal centro e preservava il carattere “leninista” del partito, poi le sezioni periferiche e gli organismi di massa assicuravano quella “occupazione della società” di cui dicevamo, ma con una importante differenza rispetto al modello socialdemocratico. I partiti socialisti avevano una corona di organismi fiancheggiatori, a cominciare dal sindacato, ma non avendo la regola del centralismo democratico, non potevano applicarla neppure negli organismi fiancheggiatori. Al contrario, il Pci non solo aveva questa come regola di partito, ma la esportò anche negli organismi di massa: in ciascuno di essi c’era la componente (o corrente) comunista che applicava la regola del centralismo democratico, vincolando tutti alle decisioni assunte in quella sede e sempre sotto la supervisione dell’organismo di partito dello stesso livello (di sezione, di federazione ecc.). Di conseguenza, i comunisti finivano per imporsi all’interno di ciascun organismo di massa, in quanto unica componente totalmente disciplinata, mentre quelle degli altri agivano in ordine sparso e dovevano accontentarsi di quello che il Pci lasciava loro, ad esempio, nella Cgil, c’era un accordo che assegnava i 2/3 dei posti al Pci, 1/3 al Psi (poi suddiviso fra Psi e Psiup) ed un 1% simbolico al Pri. Pertanto, gli organismi di massa finivano per far parte del sistema organizzativo del Pci ed essere subordinati ad esso, anche se, anche in questo caso, il Pci tendeva a non abusare del rapporto di forza favorevole e faceva ampie concessioni agli altri che, in cambio, non tentavano neppure di mettere in discussione l’egemonia comunista.

Pertanto si delineava un sistema a più stadi: al centro del partito c’era l’apparato dei funzionari che costituiva il “partito interno” cui si accedeva solo per cooptazione, intorno ad esso c’era il “partito esterno” costituito dai militanti volontari e dagli iscritti la cui adesione era libera; intormo al partito c’era la cintura degli organismi di massa, a loro volta controllati da un corpo di funzionari strettamente controllato dal partito ed in posizione subalterna rispetto all’apparato del partito.

Questo originale mix fra i due modelli, amalgamato dalla duttilità togliattiana (che mancò negli altri Pc europei, compreso quello francese, avviato ad una precoce decadenza già dalla fine degli anni settanta) permise al Pci di conciliare una direzione accentrata ed autoritaria con una straordinaria “aderenza di terreno” con la società italiana. Le federazioni del Pci furono cose assai diverse da ragione a regione, da città a città (come diremo ancora), le politiche di settore investirono tutto il corpo sociale e rivolgendosi ai ceti più diversi, l’attenuazione del carattere ideologico permise di accogliere cattolici, socialisti, laici facendo del “partito esterno” il luogo di raccolta della sinistra italiana, ragione non ultima della parallela crescita asfittica dei socialisti. E questo spiega in gran parte il paradosso del partito “egemone ma non di governo”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità