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Il Pakistan schiacciato fra le ambiguità

Al Festival di Internazionale si è tenuto un incontro per spiegare l’attualità di un Paese a noi sconosciuto ma che ricopre nello scacchiere mediorientale un ruolo cuscinetto estremamente delicato: il Pakistan. Ad introdurre l’argomento il giornalista Pepe Escobar, corrispondente di Asia Times, che ha voluto inizialmente ricordare la figura di un giovane e coraggioso giornalista pakistano che doveva essere fra i relatori, Syed Saleem Shahzad.

Indicato come un reporter coraggioso e vecchio stile, aveva rapporti diretti sia con la Marina Militare Pakistan che con i Talebani, di cui aveva intervistato i più importanti leader Pakistani tra i quali Sirajuddin Haqqani (il più potente comandante taleban dell’Afghanistan), Qari Ziaur Rahman (comandante di al Qaeda e taleban nella regione dell’Hindu Kush), e Sheikh Essa (guida ideologica takfira di al Qaeda, con base in Waziristan).

Saleem ha svolto gran parte del suo lavoro di giornalista per Asia Times Online e per Le Monde Diplomatique in una zona definita ToraBora, sotto i bombardamenti. Invitato a partecipare a una trasmissione televisiva per parlare delle infiltrazioni della marina militare dentro ad al Qaeda, viene rapito e il suo corpo viene ritrovato senza vita il 31 maggio. Aveva 41 anni. La vicenda è stata citata anche da Mike Mullen, ex ammiraglio degli Stati Uniti, per dare ulteriori argomenti all’amministrazione Obama a prendere le distanze dal Pakistan, prima alleato anti-terrorismo e ora Paese visto dagli Stati Uniti con diffidenza se non con ostilità.

A spiegare più nel dettaglio la situazione pakistana è Rahimullah Yusufzai, giornalista del quotidiano pakistano The News, che ha avuto modo di realizzare due interviste con Osama Bin Laden; la seconda fu l’ultima rilasciata dal capo di al Qaeda. Rahimullah ricorda che il Pakistan è una nazione di soli 118.000 abitanti, nata in un periodo relativamente recente e che ha perso il suo leader solo un anno dopo la fondazione. Ora a detenere il comando è una giunta militare, definita incompetente e corrotta, che ha comunque deciso di indire delle elezioni per il 2014.

Il Pakistan inoltre è un paese particolarmente colpito dalle catastrofi naturali, come un recente terremoto che ha fatto 80.000 vittime, o la grande inondazione che ha creato 10 miliardi di danni e 2.000 morti; e la ricostruzione non è ancora finita. Il numero di sfollati è di 1.300.000 persone. Economicamente è sul lastrico anche dal punto di vista tributario, con una percentuale di contribuenti del 2% soltanto, e con l’ex primo ministro che denunciava solamente 50 dollari l’anno. E poi ci sono i conflitti etnici. Mentre gli Stati Uniti ai confini con l’Afghanistan tentano un dialogo coi talebani per risolvere velocemente la guerra, il governo centrale pakistano vuole espellerli dal paese. Ma i talebani godono di grande rispetto fuori dalla capitale, grazie soprattutto a figure carismatiche come Sirajuddin Haqqani, mujhaidin afghano che ha combattuto contro l’Unione Sovietica. Secondo Rahimullah è inevitabile una negoziazione interna con i talebani, ma non con al Qeida, se si vuole risolvere l’ondata di violenza che porta dalle campagne centinaia di kamikaze a farsi esplodere nelle piazze e nei mercati delle principali città pakistane.

Jason Burke, inviato britannico, ricorda l’ultima grande leader pakistana, Benazir Bhutto, che tentò, in un Pakistan ormai fortemente islamizzato e che guardava alle realtà del golfo arabo, di mantenere un profilo occidentale, puntando a maggiori diritti per le donne e a un controllo severo sullo sviluppo nucleare (il Pakistan è uno delle nazioni che possiede ordigni nucleari ndr). Fu alla fine una posizione perdente, che non portò a una teocrazia, ma a un islamismo composito.

I giovani borghesi universitari sono laici e conservatori, mentre l’esercito preleva le sue forze dalla base sociale, più controllabile. Per sintetizzare, il pensiero politico pakistano diffuso è antiamericano, anti-indiano (come da tradizione), anti al Qaeida, ma non sono contrari ai talebani, che vedono come una ottima risorsa per liberarsi di ciò che rimane della cultura occidentale. Se siamo un Paese conservatore e musulmano, si chiedono, perché mai dovremmo essere alleati degli Stati Uniti e dell’Occidente?

Rahimullah traccia i complessi confini geografici pakistani: un paese “sandwich”, stretto nella morsa Afghana (che vedono come una potenza che è stata in grado di vincere gli inglesi, i sovietici e ora gli USA), e dall’India, eterno avversario anch’esso dotato di ordigni nucleari, quinto sostenitore economico dell’Afghanistan. Senza l’alleanza con i talebani non c’è via di uscita. Rahimullah è della tribù dei Pashtun, quindi di una zona “periferica”, contadina, uno dei serbatoi per i kamikaze talebani. E questo per Rahimullah è significativo di una situazione disperata e senza via di uscita, perché è nella cultura Pashtun rispettare donne, bambini e moschee, eppure le stragi dei kamikaze nei centri cittadini coinvolgono tutto e tutti.

Gli studiosi di religione che hanno comminato le fatwe contro i kamikaze sono stati uccisi, l’esercito pakistano bombarda i villaggi e questo alimenta, come un circolo di violenza, ulteriori attacchi suicidi dalle periferie ai centri urbani. I terroristi, che godono di grandi finanziamenti, pubblicano le loro riviste di propaganda in lingua araba, quindi riconoscono quella come area culturale di riferimento;

“lo stesso Osama Bin Laden, che parlava sicuramente più lingue, quando lo intervistai rispondeva solo in arabo e parlava esclusivamente di due cose: la questione palestinese e la cacciata dei non musulmani dai territori musulmani”.

E’ del tutto evidente che nel medio-oriente una “primavera araba” di stampo nordafricano è ben lontana a venire.

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