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Il colore della pelle

Questa è una storia senza tempo nata in un borgo marinaro senza confini. Viste dal traghetto quel grappolo di casette imbiancate dal sole sembrano calamitate miracolosamente, come per una forza misteriosa, sulle pendici del monte a picco sul mare. Casette senza tetti sovrastate da piccoli terrazzi su cui pare poggino le fondamenta di altre casette e così man mano fin su, dalla spiaggia alla parte più alta del borgo ove campeggia la vecchia torre municipale con l’orologio fermo da tempo immemorabile.
 
Un borgo come tanti che al tramonto si specchia in un mare dorato, addormentatosi sotto il sole come l’orologio della torre, fermo alle due di pomeriggio di un lontano giorno di un vecchio anno che nessuno ricorda.
 
La civiltà del benessere ha solo sfiorato quelle case. Le stradine strette e tortuose accarezzano i muri colorati con i loro scalini di pietra smussata,ultimo baluardo alle auto dei turisti.
 
Nel borgo trionfa il silenzio e spesso durante il giorno, quando i pochi bambini sono a scuola e l’aria non risuona delle loro grida festose, è possibile ascoltare il dolce sciabordio delle onde sulla sabbia dorata, laggiù in fondo, ai piedi di quelle case dai mille colori.
 
Fino a giugno il borgo è animato dalle famiglie di un centinaio di pescatori bruciati dal sole, ore e ore in mare o sulla spiaggia a rammagliare reti, carenare barche o aggiustar lampare.
 
Una vita semplice, con quel mare che è parte di se stessi e che a volte trasforma la sua amicizia nella più brutale inimicizia. Ed è allora che in qualche casa il dolore spegne il sorriso trasformando per un po’ ogni cosa nel tetro colore della notte.
 
Quel giorno di primavera uno sciame di turisti invade il borgo fin dal mattino. Le due botteghe di alimentari e di souvenir festeggiano sorpresi l’anticipato evento. A ora di pranzo l’unica piccola osteria - dieci tavoli tutti uguali, in listelli di legno unti e consunti dal tempo - è piena di gente, seduta o in piedi in attesa del proprio turno.
 
Entra un ragazzo col suo zaino, attende, ordina, poi prende il suo piatto fumante di minestra col farro, trova un posto vuoto, si siede e appende a un chiodo sotto il tavolo il suo zainetto. Solo allora si accorge di aver dimenticato il cucchiaio. Lascia la minestra e va a prendere il cucchiaio.
 
Al ritorno trova un vecchio pescatore di colore, capelli bianchi arruffati sulle orecchie, la pelle rugosa arsa dalla salsedine. E’ seduto al tavolo e sta mangiando la minestra. Il ragazzo resta di stucco, guarda l’uomo che ricambia lo sguardo con aria tranquilla continuando a mangiare.
 
Il ragazzo decide si accettare la sfida. Si siede,cucchiaio in pugno di fronte al vecchio pescatore e prende una cucchiaiata di minestra. L’uomo non dice niente, lo guarda un attimo e poi sposta il piatto al centro del tavolo, con gesto di invito e condivisione. Il duello continua. Una cucchiaiata il giovane, nervosissimo, una cucchiaiata l’altro, tranquillissimo. In silenzio, fino a quando nel piatto non resta più nulla.
 
Solo allora il vecchio negro si alza e se ne va, senza parlare. Il nostro giovane scuote la testa, si alza pure lui per andar via, cerca sotto il tavolo il suo zainetto ma non lo trova.
 
“E’ troppo – pensa - non solo mi ha preso la minestra, ma anche lo zaino... ”
 
Si fa largo fra i tavolini schivando quelli che in piedi ancora attendono di pranzare, va verso l’uscita per bloccare il vecchio pescatore.
 
Solo a quel punto, prima di uscire, vede pendere da sotto un tavolo il suo zainetto. E, sopra al tavolo, il suo piatto ormai freddo di minestra col farro.

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