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I signori della guerra del Coltan, dal Congo al Kazakistan

Qui e qui le prime due parti dell'inchiesta sulla guerra delle risorse. 

Variante kazaka

La Ulba Mechanical Works (oggi Ulba Metallurgical Plant, parte della Kazatomprom, compagnia di Stato operante nel settore dell'energia nucleare e tra le società leader nella produzione di berillio, tantalio e niobio) è invece la società di raffinazione che collega la regione del Kivu con Astana, capitale del Kazakistan, mettendo in diretta relazione il mercato del coltan con il gruppo di potere del presidente kazako Nursultan Nazarbaev, in carica dal 1990.

Il direttore generale della società è stato per anni Vitaliy Mette, genero del presidente ed ex vice-primo ministro. Dalle informazioni in possesso delle Nazioni Unite si è scoperto che a capo del traffico kazako-congolese c'era proprio la figlia del presidente, che sfruttava sia i rapporti familiari che società di comodo come la "Finmining" di Chris Huber, cittadino svizzero-tedesco in affari con il Trans Aviation Network del trafficante d'armi Viktor Bout, che utilizzava i propri aerei per trasportare minerali in cambio di armi, allo stesso modo di quanto fatto tra il 1992 ed il 1993 in Somalia, quando i suoi aerei servirono anche per i trasporti interni all'operazione "Restore Hope" dell'O.N.U., pesantemente criticate anche per il loro operato nella RDC.

Nel 2005 scoppiò uno scandalo legato al contingente pakistano, distaccato nel paese per assicurare il buon esito delle elezioni. Nella regione nord-orientale dell'Ituri dove erano dislocati, gli uomini del contingente internazionale si erano alleati con dubbi personaggi come Kambale Kisoni, commerciante d'oro - interno al sistema dei comptoir del coltan - proprietario della Congocom Trading House e della compagnia aerea Butembo Airlines, i cui voli, oltre a supportare i ribelli del Fronte Nazionalista e Integrazionista (Fni), sono stati utilizzati in un'operazione "armi per oro" in cui gli uomini dell'ONU hanno trafficato «una quantità compresa tra i due e i cinque milioni di dollari» secondo quanto denunciato da Anneke Van Woudenberg di Human Rights Watch.

Il sistema "armi per minerali" è oggi utilizzato anche dalle 'ndrine calabresi, interessate al coltan quanto all'uranio congolese. Il denaro utilizzato per questo commercio viene poi fatto transitare in banche off-shore e "ripulito" attraverso investimenti in mercati legali. «Non c'è interesse a distruggere questo sistema, l'economia mondiale oggi più che mai vive quasi esclusivamente di proventi illecii» - ha raccontato il giornalista Antonio Nicaso, tra i massimi esperti internazionali di 'ndrangheta a Rotocalco Africano - «Oggi nessuno riesce a fare a meno dei soldi del narcotraffico o di altri commerci illegali».

Chi dopo "Terminator"?

Negli ultimi anni il traffico di coltan è stato gestito dall'esercito regolare della Repubblica Democratica del Congo (FARDC), alleato con gruppi criminali come il Mayi Mayi Sheka di Sheka Ntabo Ntaberi, accusato dalle Nazioni Unite di utilizzare bambini soldato. Fino al 2009 a contendergli il controllo dello sfruttamento del coltan c'era anche il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) di Laurent Nkunda, arrestato dal governo rwandese - che fino a quel momento lo aveva sostenuto - anche in seguito alle accuse di essere stato armato direttamente dai caschi blu, dei cui elicotteri ha usufruito per i propri spostamenti. L'attività del gruppo di Nkunda era finanziata anche attraverso conti della moglie, Elisabeth Uwasse, presso la Commercial Bank of Rwanda (BCR), acquistata nel 2004 dal fondo privato britannico Actis e rivenduta a luglio dello stesso anno alla keniana I&M Bank Limited, alla Proparco (parte dell'Agenzia Francese allo sviluppo internazionale) ed alla German Investment Corporation, "braccio" del governo tedesco per il finanziamento di società private nei mercati emergenti e in via di sviluppo.

Dopo Nkunda, il governo rwandese ha puntato su Bosco "Terminator" Ntaganda, leader del movimento ribelle "Marzo 23" (M23consegnatosi spontaneamente all'ambasciata americana di Kigali il 18 marzo 2013 e da lì inviato quattro giorni dopo al Tribunale Penale Internazionale. Dalla guerra intestina all'M23 è uscito vincitore il "signore della guerra" congolese Sultani Makenga, che voci non confermate danno per morto in uno scontro con le FARDC avvenuto a luglio.

Quel destino comune che lega Kinshasa e Bogotà

Tutto questo, però, non è da circoscrivere solo al contesto neocoloniale africano. Lo stesso modello di sfruttamento applicato in questi ultimi decenni nella RDC si sta riproponendo al confine tra Brasile, Colombia e Venezuela, come ha dimostrato una inchiesta datata marzo 2012 dell'International Consortium of Investigative Journalists. La miniera scoperta nella Riserva naturale di Puinawai, nel dipartimento di Guainía, Colombia orientale, è oggi lo snodo principale del traffico di coltan sudamericano, dietro al quale - come ha raccontato Mario Pulido, consulting engineer per lo Stato di Guainía, ci sarebbero i tentativi di mettere le mani su altri minerali strategici presenti in quelle zone, soprattutto uranio, oro e tungsteno. A capo del traffico - che sfrutta le stesse rotte battute dai narco-corrieri - ci sono le Farc, che utilizzano gli indiani nativi come manodopera e la famiglia di narcos Cifuentes Villa, accusati dall'antidroga statunitense di essere fornitori ufficiali di cocaina e prestanome del cartello messicano di Sinaloa, guidato dall'inafferrabile - soprattutto perché ben protetto dagli alti vertici dello Stato messicano secondo la giornalista Anabel Hernández - Joaquín "El Chapo" Guzmán Loera.

Un Kimberley Process per il coltan?

Nel corso degli anni le istituzioni sovranazionali hanno tentato di arginare il meccanismo che lega le multinazionali ai baby-minatori congolesi. Tra questi lo UN Global Compact, una piattaforma basata su dieci principi riguardanti questioni come diritti umani, ambiente, lavoro e corruzione o come le Linee guida OCSE destinate alle imprese multinazionali. Inoltre, la riforma di Wall Street ha previsto (con la legge 1502) l'obbligo di certificazione sulla provenienza del materiale utilizzato dai produttori di apparati tecnologici, sulla falsariga delle procedure messe in atto per contrastare il commercio illegale dei diamanti insanguinati, note come "Kimberley Process".

Il commercio illegale, però, può dirsi tutt'altro che concluso.
 

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