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"I segreti di Wind River": la frontiera che (sud)divide la natura estrema dalla brutalità umana

Wyoming, Stati Uniti. Cory Lambert (Jeremy Renner) è un esperto cacciatore e agente del Dipartimento dell’ambiente con alle spalle un grave lutto famigliare. Mentre dà la caccia a un branco di puma che hanno fatto scempio del bestiame all’interno della riserva indiana di Wind River, Cory rinviene il cadavere di una ragazza, stuprata e morta per assideramento. L’FBI invia come incaricato delle indagini l’agente Jane Banner (Elizabeth Olsen) la quale, inizialmente spaesata, chiede il supporto di Cory. Il cacciatore, amico della famiglia della giovane donna morta e oltre ad essere molto legato alla comunità indiana locale, accetta, tenendo Jane all’oscuro delle sue vere intenzioni: trovare il colpevole e farsi giustizia da sé in quanto, l’orribile caso, è molto simile all’uccisione di sua figlia avvenuta qualche anno prima.

Ultimo atto di una antologica e informale Trilogia sulla moderna frontiera americana di cui fanno parte il Sicario di Denis Villeneuve ed Hell or High Water di David Mackenzie, I segreti di Wind River (Wind River, 2017) non solo conclude il progetto di sceneggiature scritte da Taylor Sheridan bensì, allo stesso momento, ne rappresenta il battesimo dietro la macchina da presa dello screenwriter americano. Strutturato come il più classico thriller di investigazione, I segreti di Wind River non si discosta, per nulla, dalle intenzioni di Sheridan, ovvero quelle di offrire una (ri)lettura filmica ed iconografica di quel mythos portante di molto cinema western. Se in Sicario la “frontiera” è resa visivamente palpabile con la messa in immagini della (non tanto convenzionale e pulita) guerra al narcotraffico sul confine americano e messicano, mentre in Hell or High Water fa da spartiacque tra disperazione e il(legalità), in I segreti di Wind River questa linea di demarcazione geografica amplia ancora di più quello che è il tema sottinteso di tutte e tre le opere: quel flebile e, a volte, confuso confine tra il bene e il male.

Nel primo lavoro da regista di Sheridan vi è la frontiera che (sud)divide la natura estrema dalla brutalità umana, di quei luoghi arcaici, di quella Madre Terra originaria a volte sì spietata ma mai quanto l’ancestrale violenza dell’uomo che, da un momento all’altro, può (so)spingerlo verso atti di estremo orrore. L’omicidio che avvia le vicende di I segreti di Wind River è solo il centro propulsore di una più complessa riflessione su natura e uomo che si rivela essere, minuto dopo minuto, una accurata introspezione psicoantropologica negli animi dei protagonisti: il cacciatore Cory è un uomo che ha dovuto costruirsi addosso una corazza (quasi) inscalfibile per poter superare l’elaborazione del lutto e, così, discostarsi da quell’ingiusto senso di colpa auto imputato per la drammatica fine della figlia; l’agente Jane, invece, crede di essere preparata a tutto, anche al peggiore dei casi di omicidio, ma se c’è una cosa per cui non è stata, veramente, fino in fondo addestrata è l’agire in un mondo che sembra essere a se stante rispetto a tutto il resto, un posto al di là della legge e in cui sembra che, a far da padrone, sia il più forte. Se il background dei due protagonisti principali in parte richiama alla mente quello di Alejandro e Kate Macer di Sicario, di certo non si tratta di un semplice ricalco di personaggi: al pari del misterioso consulente e della ligia agente speciale dell’FBI del capolavoro di Villeneuve, il duo investigativo di I segreti di Wind River diventa diretto testimone del sempiterno scontro di forze benigne e maligne che si consuma, ogni giorno, in qualunque parte del globo senza differenze di longitudine e latitudine. Nonostante le discrepanze di metodo e di ruolo i due, come in Sicario, si completano vicendevolmente, dimostrando di essere l’uno il riflesso speculare dell’altro.

Uno scontro, una millenaria battaglia resa ancora più grave e sentita da quell’assordante bianco, da tutta quella neve che ricopre le lande e i rilievi montuosi della riserva indiana, una sorta di terra di nessuno nella quale sembra vigere la legge della selezione naturale e che nella sua provincialità nasconde, come nell’immenso Prisoners, un campionario di atti riprovevoli. Le location naturali ricoprono in I segreti di Wind River non solo il ruolo di sfondo d’azione ma – contemporaneamente – assurgono al livello di coprotagoniste insieme agli attori in carne ed ossa. Tra scorci candidi e simil lunari, alte cime innevate e sentieri di montagna la riserva si trasforma nell’“arena” di scontro di chi da un lato chiede, ad alta voce, che sia fatta giustizia mentre dall’altro lato la pavidità e il delirio di onnipotenza cercano di mettere a tacere tutto e chiunque, sperando di poter “regnare” con abusi e soprusi dall’alto dell’autorità autoproclamata. Addizionando dosi di tensione e suspense, Sheridan procede verso il punto di non ritorno in un climax memore del più deleuziano duale, lasciando spazio a un crescendo di esplosioni di violenza brutale e realistica, in cui il sangue sporca e viola la purezza della neve in vibranti cromatismi abbaglianti e sconcertanti e, parimenti, permette una commistione di generi: se l’intreccio narrativo si risolve nel più classico e collaudato dei modi, il regista si concede una breve ma significativa intrusione nel genere del revenge movie dando così forma, plasmando quella sete di vendetta trasferita da un padre a un altro padre, in modo tale che i fantasmi del presente e quelli del passato possano, finalmente, avere pace.

Forte di una abbacinante fotografia e di una colonna sonora essenziale ma di gran atmosfera, ottimamente girato e interpretato da un Jeremy Renner mai così convincente dai tempi di The Hurt Locker e The Town e capace di portare sul grande schermo uno spessore sia attoriale sia psicologico di un uomo in balia degli eventi e coadiuvato dalla più che brava Elizabeth Olsen che mette in scena tutte le sfaccettature e le debolezze del suo personaggio senza tuttavia far ricorso ad alcun patetismo, I segreti di Wind River è un thriller di alta scuola che, nonostante si tratti pur sempre di un esordio, non presenta nessuna sbavatura registica e filmica così da permettergli di confermarsi come ultima parola di un percorso tematico iniziato da Sheridan come sceneggiatore e, in ultima istanza, come regista.

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