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I lupi solitari di Gerusalemme

Gerusalemme: salgono a dodici gli ebrei uccisi nell'ultimo mese nella capitale di Israele.

Uccisi da palestinesi che hanno aderito all’intifada dei “lupi solitari” usando le auto per travolgere passanti, i coltelli per colpirli, asce e pistole per feririli e ucciderli dentro i luoghi di studio o di preghiera.

A questi si devono aggiungere le vittime dell’aggressione che i drusi hanno subìto da parte di manifestanti palestinesi per un antico odio che risale ai tempi delle persecuzioni islamiche di questa piccola setta dissidente. Odio che ne ha fatto l’unica componente del mondo islamico ad essere stretta alleata degli ebrei israeliani (curdi a parte). Anche uno dei morti di Gerusalemme, un poliziotto, era druso.

Alle vittime israeliane andrebbero aggiunte anche quelle che in Francia e in Belgio hanno subìto aggressioni per lo scontro etnico-religioso ormai esportato anche in Europa.

Lo stillicidio di uccisioni è speculare a quello di cui i palestinesi sono stati vittime per mano di coloni armati e, come quelle, sono aggressioni rivolte indiscriminatamente contro civili della parte avversa, in un sanguinoso ripetersi di azioni e reazioni la cui origine si è persa nella notte dei tempi come in ogni tragica faida. 

Oggi impone - o almeno dovrebbe imporre - una riflessione ad entrambi i fronti.

Agli israeliani dovrebbe far pensare che l’indivisibilità di Gerusalemme è un concetto astratto e incomprensibile; prigioniero di una logica insensata che si ammanta di religiosità, ma che non ha nulla a che vedere nemmeno con quella. Dividere Gerusalemme, lasciando al futuribile stato di Palestina la possibilità di fondare la sua capitale nei quartieri arabi della città, non minerebbe affatto l’integrità, la compattezza e la legittimità dello stato ebraico né la "sacralità" della Gerusalemme ebraica.

Ai palestinesi dovrebbe far riflettere che ogni singolo atto di sangue - come l'uccisione dei tre ragazzi ebrei che ha innescato l'ultima guerra di Gaza - è foriero solo di disastri per la loro stessa parte, ma non facilita certo la trattativa con lo stato di Israele; sessanta anni di storia di aggressioni militari subìte, le campagne di attentati contro i civili e il lancio a cadenza quotidiana di razzi da ogni “confine”, non hanno regalato al popolo palestinese la vittoria, come si affrettano a festeggiare, in modo demenziale, i militanti di Hamas ad ogni caduto israeliano.

In realtà, la strategia dello scontro armato, non ha portato altro che disastri e lutti, in misura prevalente, proprio a quella palestinese. Oggi lo stato di Palestina, se mai vedrà la luce, anche se ormai molti analisti sono molto pessimisti su questa prospettiva, potrà contare su un territorio dimezzato rispetto a quello che avrebbe potuto avere nel 1948, quando ha avuto la possibilità di nascere sotto l’egida delle Nazioni Unite. Segno indiscutibile di una politica muscolare tanto stupida quanto controproducente.

I due popoli hanno - entrambi - accumulato odio in quantità tali che ci vorranno secoli per riuscire a smaltirlo. Né gli apprezzabili quanto minimali gruppi di dialogo interetnico possono pensare di cambiare realmente le cose. Forse fra secoli.

Quindi urge, più che mai, una separazione.

Che non può essere solo il muro che qualcuno chiama “muro della vergogna” dimenticandosi volutamente (alias ipocritamente) che è servito a ridurre drasticamente le vittime civili della campagna di attentati suicidi promossa da Hamas nei primi anni duemila, quando centinaia di persone sono state fatte a pezzi negli attentati sui bus, nelle discoteche, nelle pizzerie.

La separazione deve essere reale e a tutto tondo. Quindi avvenire nell’ambito di quella divisione in due stati che la diplomazia internazionale persegue e che le due ali estreme di entrambi gli schieramenti ostacolano. In nome di un diritto su tutto quel territorio tra il Giordano e il mare in cui entrambi devono vivere.

L’alternativa vera, oggi quanto mai reale - quella di un unico stato binazionale - ritenuta ideologicamente corretta solo dalle formazioni di origine veteromarxista o, al polo opposto e con opposte motivazioni, dall’oltranzismo estremista e religioso sia ebraico che arabo, non può rivelarsi altro che un immane disastro.

L'ipotesi che la West Bank possa davvero diventare una sorta di Alto Adige ricco e tranquillo, relativamente autonomo ma non indipendente, densamente abitato da arabi, ma con significativa presenza ebraica, non fa i conti con una presa sulla popolazione dei proclami di Hamas che, se mai fossero indette nuove elezioni, potrebbe vincerle anche a Ramallah, non solo a Gaza. E che, in ogni caso, ha militanti e simpatizzanti pronti all'omicidio di strada del primo passante con la kippà.

Inutile aggiungere che a pagarne le conseguenze più drammatiche saranno poi i palestinesi.

Agli israeliani servirebbe indubbiamente un nuovo Rabin capace di lungimiranza, che non appare all'orizzonte, e ai palestinesi servirebbe come non mai quel Mandela o quel Gandhi che non hanno mai avuto, se non nelle fantasticherie di qualche benpensante occidentale.

Foto: G. Keller/Flickr

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