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HIV, individuati due nuovi bersagli

Di Cristina Da Rold

Sono risultati di primaria importanza per lo studio dell’infezione da HIV quelli pubblicati qualche giorno fa da un gruppo milanese dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e dall’omonima Università sulla rivista PNAS. Il gruppo ha infatti individuato due nuovi potenziali bersagli farmacologici nella lotta contro l’HIVall’interno del sistema nervoso centrale, un modo per riuscire a controllare il meccanismo che governa la persistenza e propagazione del virus in quel particolare organo e, forse, anche in altri.

“Il virus dell’HIV oltre a infettare i linfociti T, uccidendoli, contagia anche i macrofagi, cellule che hanno lo scopo di fagocitare particelle estranee come appunto virus o batteri”, spiega Guido Poli, autore senior dello studio. “La differenza rispetto ai linfociti T è che i macrofagi non vengono eliminati dal virus, ma semplicemente lo accumulano progressivamente all’interno del loro citoplasma in vacuoli o macrovescicole. Diventano così essi stessi vere e proprie bombe virologiche che garantiscono la persistenza del virus in diversi organi e tessuti, in particolare nel cervello, privo di linfociti, dove può causare un’encefalite mortale.”


Questi macrofagi “ammalati” rilasciano piccole quantità di particelle virali, ma finora non era noto se esistesse un meccanismo di rilascio controllabile farmacologicamente. La risposta affermativa è arrivata da un attore in parte inaspettato: la molecola ATP (adenosina-trifosfato), nota per essere la principale fonte di energia delle cellule, ma anche un segnale di pericolo quando rilasciata nell’ambiente extracellulare per le sue proprietà infiammatorie. Utilizzando questa molecola i ricercatori hanno dimostrato che, stimolando i macrofagi infettati con ATP, mediante il legame a un suo noto recettore sulla superficie delle cellule, P2X7, questi rilasciavano rapidamente la maggior parte delle particelle virali accumulate.


Il gruppo ha quindi individuato un secondo fattore chiave del meccanismo di rilascio delle particelle virali, ma anche la possibilità di poter bloccare questo meccanismo, non solo con antagonisti di P2X7, ma anche grazie a un farmaco antidepressivo. Si tratta dell’Imipramina, che ha la proprietà di inibire la produzione di microvescicole dalle cellule, una particolare modalità con cui le cellule si liberano del loro contenuto e comunicano con l’ambiente circostante.


“È come se da anni cercassimo di governare un’automobile in movimento e solo ora avessimo individuato dove sono l’acceleratore e il freno” spiega il professor Poli. “Il motivo per cui abbiamo scelto di testare questo farmaco – prosegue Poli – è che proprio qui al San Raffaele il Roberto Furlan, Capo dell’Unità di Neuroimmunologia Clinica e coautore del lavoro, da anni si occupa di sclerosi multipla e le sue ricerche hanno dimostrato il legame fra Imipramina e produzione di queste microvescicole: il farmaco infatti blocca l’enzima che le genera.”


“Al momento – conclude il Prof. Poli – il proseguimento dello studio è a forte rischio, data la sostanziale assenza di finanziamenti pubblici per ricerche inerenti il virus HIV negli ultimi tre anni, ma intanto andiamo avanti e al momento abbiamo attivato un dialogo con alcune aziende farmaceutiche. Questo nostro studio è infatti stato condotto unicamente in vitro, ma ricerche come queste necessitano di trial clinici in vivo e studi di validazione in costosi modelli animali. Ora dunque ci troviamo in una fase intermedia in quanto poggiamo su una solida base che ci ha permesso di ipotizzare come regolare il meccanismo di rilascio delle particelle virali nei macrofagi cerebrali delle persone infettate.”

@CristinaDaRold

Questo articolo è stato pubblicato qui

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