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Grecia, domande su un dramma

Dopo la decisione del premier greco Alexis Tsipras di convocare un referendum popolare per consentire ai cittadini di esprimersi sull’ultima proposta dei creditori, è opportuno tentare di chiarirsi le idee su quanto accaduto e su quanto potrà accadere in Grecia, in queste ore di banche chiuse e controllo dei movimenti di capitale. E dopo aver letto e sentito commenti che spaziano dall’idealismo naif con venture utopistiche sino a forme di strumentalizzazione politica domestica che sono sinceramente ributtanti, per cinismo. Ma quello che tutti dovremmo avere chiaro è che qui siamo tutti sconfitti, pesantemente.

Tsipras ha sbagliato a convocare un referendum?

No, probabilmente quella decisione andava presa tempo addietro. Ci provò Papandreou ma fu travolto dalle pressioni europee e fors’anche da tempi non ancora maturi. E’ giusto che il popolo greco possa esprimersi su una questione così esistenziale, anche se i tempi stretti di convocazione rischiano di causare il caos. Ma restano innumerevoli contraddizioni, destinate a rimanere ed accentuarsi all’avvitarsi della situazione.

Quali?

Syriza si è presentata alle elezioni chiedendo un mandato per porre fine all’austerità ma non per uscire dalla moneta unica. Almeno questa era la posizione della maggioranza del partito-federazione, mentre la frangia di sinistra radicale è sempre stata favorevole alla fuoriuscita dall’euro. Ma dire “basta alla austerità” è solo uno slogan elettorale, se non è declinato in senso operativo. A dirla tutta, la presenza di un avanzo primario è e resta “austerità”, e questo Tsipras e Varoufakis lo sapevano e lo sanno. Del resto, era impensabile ipotizzare che alla Grecia sarebbe stato concesso di fare deficit spending per stimolare la ripresa, e di fatto il nuovo governo greco non ha mai mostrato di voler fare realmente qualcosa per ristrutturare il mercato del lavoro e quello dei prodotti. Poi, se vogliamo metterci biecamente nei panni dei creditori (di tutti i creditori, inclusi i singoli stati), ipotizzare un taglio del debito greco quando servire quel debito costa oggi solo il 2,5% di Pil annuo (quasi la metà di quanto costa all’Italia, ad esempio), appariva politicamente problematico pur in presenza di condizionalità, figuriamoci senza.

Che significa “ristrutturare il mercato del lavoro”?
Significa liberalizzarlo per spingere la produttività, per quanto “crudele” ciò appaia a chi ha una corrispondenza di amorosi sensi con le utopie. Non significa certo rincorrere lo status quo ante, come invece sta accadendo. In questo modo si genera solo deficit aggiuntivo, che in qualche modo va pagato.

Ma questa è una posizione neoliberista!
No, questa è la posizione della realtà, è diverso.

Non sono d’accordo: quando non si può svalutare la moneta si finisce a svalutare il lavoro.
Questa è una frase tanto suggestiva quanto vacua. Intanto, conta il cambio reale, non quello nominale, cioè inclusivo delle dinamiche di prezzi e produttività. Se bastasse svalutare il cambio nominale il mondo sarebbe popolato di paesi felici, che si sottraggono vicendevolmente domanda e riescono ancora a sorridersi senza aver fatto esplodere una guerra di dazi e protezionismo. E’ bello lanciare slogan, alla fine. Costa nulla. Il cambio è solo uno degli elementi, poi serve produttività, e quella difficilmente viene in un mondo di salari minimi elevati, di pubblica amministrazione collassata e marcia dalle fondamenta, di corporativizzazione malata. L’errore della Troika è stato quello di essersi accontentata, durante gli anni, di aggiustamenti contabili, cosmetici ma anche distruttivi. Ma questa è stata la volontà dei governi greci, opporsi alle “ingerenze” straniere nel ridisegnare il proprio sistema economico. Non si poteva invadere la Grecia per imporle le riforme, del resto. Abbiamo visto come è andata quando abbiamo cercato di “esportare la democrazia”. E’ andata allo stesso modo quando abbiamo cercato di “esportare le riforme”. Ma anche queste sono solo considerazioni da bar.

Perché?
Perché la Grecia non ha praticamente un settore di export, e quello che ha è a valore aggiunto infimo o nullo. Da dove uscirebbe l’aumento di produttività per determinare la crescita dei redditi reali di lungo periodo? E’ facile dire “basta all’austerità!”, siamo tutti o quasi d’accordo. Ma questo è solo uno slogan. Poi c’è un’altra cosa da aggiungere, ed è molto sgradevole alle orecchie delle anime belle.

Cosa?
Che non tutti i popoli sono “attrezzati” allo stesso modo per soffrire durante una crisi economica. Alcuni virano rapidamente verso scorciatoie che in realtà sono la corda a cui impiccarsi. Questa frase suona sgradevole? Me ne dispiace, non so che farci. E chi pensa che il popolo greco abbia già sofferto molto, non ha consapevolezza di quello che potrebbe accadere in un futuro sempre più prossimo. L’equivoco tragico di questa vicenda è pensare che fuori dalla moneta unica europea non ci sia bisogno di austerità. Ce ne sarà bisogno tanto quanto ed oltre, rispetto allo status quo, come dimostra la storia recente, purtroppo sottaciuta, di un paese che aveva una propria moneta.

Che accadrà in caso di vittoria dei sì (all’accordo) nel referendum?
Che si aprirà comunque una fase drammatica, per la Grecia ed i greci. Che Tsipras ed il suo governo saranno sfiduciati e dovranno/dovrebbero dimettersi, visto che stanno facendo campagna per il no. Sarebbe opportuno evitare di mettere in contrapposizione logica la coerenza e la democrazia. Peraltro, se il governo si dimettesse, con chi negozierebbero i creditori internazionali? Ma forse, di fronte ad una vittoria dei si, Tsipras direbbe che “il popolo si è espresso, rispetto il suo volere e bevo l’amaro calice, vado a negoziare”. Solo che nel mondo reale non funziona così. E la Grecia scivolerebbe (scivolerà) sempre più verso la condizione di stato fallito, cioè verso il caos civile e sociale. Ma quello che forse non si riesce a cogliere è che la Grecia era già uno stato fallito, quando è entrata nell’euro. La storia dei suoi default seriali degli ultimi due secoli ed il livello incoercibile dei suoi deficit pubblici, anche dopo l’ingresso nell’euro e malgrado il boom di consumi e credito da esso indotto (a differenza di Spagna ed Irlanda, che avevano robusti surplus fiscali, anche se illusori), erano moniti piuttosto chiari.

Ma…e il popolo sovrano?
Il popolo sovrano ha dato mandato a Syriza di uscire dall’austerità e restare nell’euro. Questa era ed è una assoluta aporia, ma non nel senso che l’euro è connaturato alla austerità. La tragedia, come detto, è che anche fuori dalla moneta unica servirà una cosa chiamata “austerità”, e chi vi dice il contrario è in palese malafede. A meno, s’intende, di puntare a cambiare radicalmente paradigma e diventare tutti rivoluzionari maoisti.

Si, ma meglio fuori dall’euro che dentro. Almeno possono giocarsela.
Anche qui, può essere. Ma nei cambiamenti di stato di un sistema complesso esiste una cosa chiamata transizione, durante la quale viene testata la capacità di sopportazione della popolazione e, specularmente, la sua propensione alla ricerca di scorciatoie fallaci.

Che accadrà all’Italia? Avremo contagio?
Questo lo scopriremo. Quello che preoccupa maggiormente è che noi siamo già stati contagiati culturalmente. Dalla demagogia e dalla distruttiva propensione a cercare scorciatoie magiche, proiettili d’argento e vittimismo. E questo contagio è avvenuto molto prima dell’introduzione dell’euro. E’ un tratto culturale dominante nel paese. E’ il nostro spread più drammatico. Avere consapevolezza di ciò induce ad essere pessimisti, per il nostro futuro.

Foto: georgetikis/Flickr

 
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