Governo e Corte dei Conti: padella e brace

Una politica che dia crescita e lavoro senza aumentare il deficit è possibile, però...
E’ di questi giorni l’articolo de “Il Fatto quotidiano” che riporta le opinioni espresse dal giudice Giampaolino della Corte dei Conti nella audizione in Parlamento.
E’ indubbio che gli esiti dell’azione di Governo sono decisamente insufficienti. Ha accentuato la crisi, ma, a parte il fatto siamo a metà corsa, la strategia suggerita dall'alto della Corte consiste proprio nel contrario, forse, non di ciò che va fatto, ma certo di ciò che è possibile fare.
Il primo è quello che suggerisce qualcosa di nuovo, anzi di antico ovvero il pareggio di bilancio, idea detta nuova e che è, in realtà, la più antica tecnica di gestione privata e pubblica, tanto che è insita nella parola bilancio.
Il pareggio di bilancio arriva prima di fra’ Luca Paciolo e di Francesco Datini e, pure, ad essa sono vigorosamente e parzialmente contrario quando si parla di bilancio dello Stato. Non è quindi per ostilità preconcetta che critico l’idea di Giampaolino.
Ad avviso mio e della logica più banale ci sono situazioni in cui si deve mantenere per uno o più anni (pochi) il deficit e altre in cui è necessario ottenere un surplus.
Deficit per fronteggiare terremoti o tsunami o crisi e surplus per compensare, magari, il deficit nato quelle situazioni e divenuto debito e causa di interessi. O per prepararsi a tali futuri eventi negativi.
Oggi noi abbiamo bisogno di surplus ché, di deficit e debito, ne abbiamo avuti più che abbastanza.
Sembra che quasi nessuno si renda conto che spendere in deficit, fare debiti significa spendere sicuramente oggi quello che forse si avrà domani e che quel debito occorrerà, poi, ripagarlo. Maggiorato di interessi spesso elevati.
Come per la Grecia sarebbe stato pregiudizievole fallire in modo più eclatante, ma sempre meno di questa politica della troika.
E questa situazione è molto simile, mutatis mutandis, a quella dell’imprenditore con debiti a tassi da strozzo (come si dice) visto che il 7% è considerata la soglia di non ritorno.
Come esempio basta tornare alla Grecia prima del tragico ed errato aiuto della troika (simile alla politica di Monti).
Vero è che nella prefazione del suo libro principale scrive che un governo saggio dovendo scegliere se costruire una cattedrale o una ferrovia da Londra a York, costruirà la cattedrale perché, poi per creare lavoro potrà sempre costruirne un’altra senza subire accuse di spreco, ma Keynes amava il paradosso.
La sua teoria di politica economica viene riassunta in tre parole “spendere, spendere, spendere”, ma anche Napoleone diceva che per fare la guerra occorrono tre cose ”soldi, soldi, soldi”, ma certo non pensava di poter fare ameno dei soldati e di armi e vettovaglie.
Ma di questo, che richiede politiche impopolari, tutti si sono dimenticati.
Keynes scriveva per sanare la crisi del ’29, che i governi di allora curavano con forti politiche deflazionistiche, come ora lo si fa con quelle inflazionistiche.
Perché non è keneysiana, ma legata alla volgarizzazione della sua teoria e lontana dal pensiero di quell’economista. E perché non tiene conto di quel se possibile.
È facile spendere in deficit, fare altri debiti (se si trova chi è disposto al prestito) e ridurre le imposte, ma poi?
Io non voglio difendere un Monti che provoca danni di poco inferiori a quelli che ripara, ma nemmeno si può cercarla aumentando deficit, debito e interessi per apportare vantaggi di poco superiori (o inferiori?) ai danni che si fanno.
Si può in queste condizioni spendere in deficit e ridurre le imposte?
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