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 Home page > Attualità > Ambiente > Ferro per ridurre l’effetto serra: utile o pericoloso?

Ferro per ridurre l’effetto serra: utile o pericoloso?

L’immissione di ferro nelle acque oceaniche potrebbe ridurre drasticamente la quantità di CO2 nell’atmosfera. Gli studiosi però non sono concordi su quali potrebbero essere le conseguenze.

Ormai non passa giorno senza che si parli di riscaldamento ambientale.

Fioriscono mille studi tesi a provarlo o confutarlo, e mille teorie su come arrestarlo.
Probabilmente non si giungerà ad un’unica tecnica in grado di invertire o mitigare la tendenza, ma un mix di strumenti, metodi e impegno ambientale potrebbe funzionare.

È in quest’ottica che bisogna guardare alla scoperta di John Martin, ex direttore del Moss Landing Marine Laboratory, una proposta sussurrata già dall’88, e che oggi ha assunto la dignità di una via possibile.

Martin ha notato che l’immissione di ferro nelle acque oceaniche aumenta la quantità di fitoplancton, "alghe" microscopiche in grado di assorbire parecchio carbonio, così riducendo l’anidride carbonica (CO2), uno dei principali responsabili del riscaldamento atmosferico.

Quanto carbonio assorbono?
Le risposte a questa domanda non trovano concordi gli scienziati. I primi test di laboratorio lasciavano supporre di estrarre da 30.000 a 110.000 tonnellate del gas serra per ogni tonnellata di metallo.

Le prove sul campo, purtroppo, raccontano qualcosa di diverso: 12 piccoli esperimenti condotti nelle acque oceaniche hanno ridimensionato le cifre in 1000 tonnellate di carbonio per tonnellata di ferro.

Nonostante ciò molti - scienziati e aziende - ritengono che sia necessario provare con esperimenti di più vasta scala prima di abbandonare l’idea. I risultati potrebbero essere sorprendenti e confermare le prime ipotesi.

I detrattori, al contrario, hanno sfoderato una lista di obiezioni e possibili inconvenienti.


- Prima di tutto, il fitoplancton non sottrae solo il carbonio che andrà a formare la CO2, ma potrebbe impoverire le acque in modo imprevedibile. Come ha affermato Robert Anderson del Lamont-Doherty Earth Observatory: "puoi rendere una parte d’oceano più verde arricchendola di ferro, ma renderai gran parte dell’oceano più blu".


- In secondo luogo i risultati non sarebbero duraturi: solo una piccola parte del carbonio intrappolato è trasportata a grandi profondità e sepolta lì per millenni. Le correnti oceaniche ne riporterebbero invece la maggior parte in superficie in pochi anni o decenni, riproponendo il problema.


- E poi, tutto quel fitoplancton non potrebbe sconvolgere la catena alimentare?

“Senza sperimentare non lo sapremo mai”. È l’opinione dei sostenitori della bontà del metodo. Solo studiandolo a fondo potremo identificare problemi reali, e quindi decidere se provare a risolverli o lasciar stare. Intanto avremo imparato qualcosa di più su un fenomeno che potrebbe avere anche altri sviluppi.

C’è poi un altro lato, meno scientifico, da considerare. Molte aziende trovano questi studi appetibili anche a livello economico, con la rivendita dei cosiddetti credit offset del carbonio sottratto.

Come funziona il mercato di questi credit offset?
Gli esperimenti elimineranno dall’atmosfera una certa quantità di CO2. Molte aziende potranno mostrare il loro impegno ambientale acquistando “quote” di questa riduzione di gas serra. Il problema principale è determinare quanta CO2 è stata sottratta.

Alcuni ambientalisti ritengono che questa forma di mercato nuoccia alla reale situazione del riscaldamento ambientale falsando i quantitativi di gas serra messi in gioco.

Insomma, la strada del ferro nell’oceano è in salita: forse tra pochi anni vedremo qualche risultato più preciso che permetterà a scienziati, aziende e soprattutto alla politica di decidere con cognizione di causa.


Fonte:
WHOI - Woods Hole Oceanographic Institution

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