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Europa pronta a riaprire ambasciate a Damasco?

(di Lorenzo Trombetta, per Ansa)

Manca solo l’ufficialità, ma dopo quasi quattro anni di interruzione dei rapporti diplomatici tra numerosi Paesi europei e autorità siriane, le cancellerie di mezza Europa e la stessa Unione Europea riporteranno a breve il loro personale nella capitale siriana e, in alcuni casi, riapriranno formalmente le ambasciate.

Anni luce sembrano separare questa ipotesi concreta dallo scenario delineatosi nell’agosto del 2011. Nel mezzo della implacabile risposta militare e poliziesca delle forze siriane ai tentati raduni anti-governativi, gli Stati Uniti, l’Ue e diversi Paesi europei tra cui l’Italia chiesero esplicitamente le dimissioni del presidente Bashar al Assad. “E’ delegittimato, se ne deve andare”, era stato il mantra con cui si è preparato il terreno per la chiusura, mesi dopo, delle sedi diplomatiche. Quella italiana a Damasco ha chiuso nel marzo 2012.

Dal 2011 l’Ue aveva varato numerosi cicli di sanzioni economiche e finanziarie contro esponenti del regime e a società ad esso legate. Diverse e ben informate fonti diplomatiche e politiche europee in Libano, in Turchia e in Italia hanno confermato all’Ansa quanto da settimane trapela tramite i media della regione: diversi Paesi europei, in primis la Germania, ritengono che il regime siriano, sostenuto da Russia e Iran, è un attore chiave per la soluzione politica del conflitto.

Dal 2011 in Siria sono morte almeno 200mila persone. Decine di migliaia sono gli scomparsi, moltissimi nelle carceri del regime e altri in quelle dello Stato islamico (Isis). Secondo l’Onu, circa metà dei 21 milioni di abitanti totali hanno oggi urgente bisogno di assistenza umanitaria in quanto profughi all’estero o sfollati nelle aree interne.

L’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura, al termine della sua recente visita a Damasco, ha affermato che Assad è “parte della soluzione”. E secondo Elmar Brok, presidente della commissione esteri del Parlamento europeo, l’Unione Europea si sta muovendo per avviare un confronto con le autorità siriane. “Il clima è cambiato. Assad torna a esser un partner con cui bisogna fare i conti, volenti o nolenti”, ha detto all’Ansa un rappresentante dell’Unione in Turchia.

Le truppe del regime, sostenute sul terreno dagli Hezbollah libanesi, dai Pasdaran iraniani e consigliati da generali russi nel quadro di un’alleanza strategica decennale, hanno nel corso del 2013 ripreso il controllo di parte dell’asse urbano Damasco-Aleppo e rafforzato la cintura protettiva attorno alla regione costiera roccaforte dei clan al potere da quasi cinquant’anni.

Sempre nel 2013 e senza esser di fatto ostacolato dalle forze lealiste, lo Stato islamico aveva guadagnato terreno nell’est e nel nord del Paese, spazzando via la resistenza degli insorti anti-Assad. E favorendo così in Occidente e altrove una lettura sempre più binaria dell’attuale conflitto siriano: o Assad o i ‘tagliagole’ dell’Isis. “Le autorità siriane ci hanno più volte invitato a tornare a Damasco per discutere di come lottare assieme al terrorismo”, ha affermato un diplomatico europeo a Beirut.

Nel giugno scorso Assad è stato rieletto presidente in ‘elezioni’ ampiamente contestate all’estero e in patria ma esibite da Russia e Iran come la prova del consenso popolare di cui gode il raìs. Sempre l’anno scorso, la Germania è stata tra i primi Paesi dell’Ue ad ammettere di aver inviato delegazioni dell’intelligence in Siria per riprendere contatti con i colleghi siriani. Anche altri Stati europei hanno seguito l’esempio, specialmente dopo che cittadini europei sono caduti in mano all’Isis e a causa del crescente fenomeno di jihadisti europei unitisi allo Stato islamico. (Ansa, 20 febbraio).

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.159) 25 febbraio 2015 20:01

    Dopo quasi quattro anni di conflitto sanguinoso gli occidentali e l’ONU sembra stiano finalmente assumendo una posizione neutrale rispetto alle parti in lotta: quella posizione che avrebbero dovuto assumere fin dall’inizio.
    Non averla assunta, l’essersi schierati a favore dell’una e contro l’altra, ha contribuito enormemente alla tragedia inutile che si è consumata ai danni della gente di Siria. E non è finita qui: ci vorranno decenni, se si riuscira mai a farlo, per ricomporre le fratture che hanno distrutto il tessuto sociale di quello che una volta era uno stato unitario nel quale la convivenza civile era una realtà, pur con tutti i limiti e le violenze sotterranee di un regime autoritario.
    Occorre capire come e perché è successo, chi sono stati i responsabili, quali forze e con quali obiettivi hanno indotto i decisori occidentali ad agire una strategia che ha causato le enormi perdite subite dai siriani.
    Voglio solo ricordare che nel 2013, con la flotta schierata e il dito già sui pulsanti di lancio dei missili, un Obama tormentato dal dubbio volle rimettere al Congresso la decisione di ordinare l’attacco alla Siria giustificato dal presunto superamento della linea rossa sull’uso delle armi chimiche.
    Immediatamente l’AIPAC sguinzagliò 250 lobbisti per convincere il Congresso a dare il consenso.
    Nel frattempo, grazie ad una mezza frase di Kerry, Russia e Italia si attivarono immediatamente per mediare la consegna delle armi chimiche del regime. E questo evitò alla Siria un destino simile a quello della Libia, sicuramente molto peggiore di quello attuale.
    Che io ricordi l’unico governo che espresse forte stizza per l’esito dell’operazione e per il mancato attacco fu quello israeliano.
    AIPAC e governo israeliano. Di certi fatti è bene tenere conto affinché non si ripetano in futuro.

  • Di Persio Flacco (---.---.---.14) 26 febbraio 2015 09:51

    Come può avvenire che la vita di milioni di persone venga sconvolta nel giro di pochi mesi? Chi lo decide, e perché?

    Questo articolo di Manlio Dinucci illumina una piccola parte di quel processo che ha portato alla distruzione dello stato libico, che ha compromesso presente e futuro della gente di Libia, che ha aperto la strada all’ISIS e ad altre formazioni integraliste islamiche ad un passo dal confine sud dell’Europa.

    Un processo assai simile a quello che si è ripetuto praticamente identico anche in Siria, salvo che il veto di Russia e Cina in Consiglio di Sicurezza ONU ha negato la base legale per un massiccio attacco militare NATO che avrebbe dovuto rovesciare il regime siriano. 

    L’ipotesi che oggi la Russia stia pagando il prezzo di quella decisione, grazie al colpo di stato in Ucraina, e che anche alla Cina fosse preteso un prezzo simile, grazie alla rivolta di Hong Kong, non può ancora essere provata ma non credo sia del tutto cervellotica.
    Nell’uno e nell’altro caso si vede chiaramente in trasparenza l’azione di Washington.

    Ma sarebbe interessante conoscere, perché ne va anche del nostro futuro, chi o cosa ha indotto Hillary Clinton a promuovere certe strategie; quali forze, e con quali motivazioni, hanno indotto l’amministrazione Obama ad invertire di 180 gradi la direzione della sua originaria politica estera.

    -----------------------------
    di Manlio Dinucci
    da il manifesto, 24 febbraio 2015

    Non è vero che la guerra del 2011 abbia disgregato lo Stato libico. Il perché ce lo ha spiegato il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo al Senato: «Ritengo che, nel senso moderno dell’espressione, uno Stato non sia mai esistito in Libia». Pochi mesi fa, aveva definito la Libia «Stato fallito» (categoria creata dal «Fondo per la pace» Usa). Ora però ci ha ripensato: «Che si possa parlare oggi di Stato fallito suscita in me perplessità: non era uno Stato l’esercizio del potere autocratico e personale del presidente Gheddafi sulla base di un sistema di equilibri con la moltitudine delle tribù».

    Sulla sponda sud del Mediterraneo non c’era dunque uno Stato, la Repubblica araba di Libia, nata nel 1969 dopo oltre 30 anni di dominio coloniale italiano e quasi 20 di una monarchia succube di Gran Bretagna e Stati uniti. Uno Stato che, abolita la monarchia, aveva chiuso nel 1970 le basi militari statunitensi e britanniche, e nazionalizzato le proprietà della British Petroleum.

    Uno Stato che – documentava la Banca mondiale nel 2010 – manteneva «alti livelli di crescita economica», assicurando (nonostante le disparità) il più alto tenore di vita in Africa e dando lavoro a circa due milioni di immigrati africani; che registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello universitario.

    Uno Stato che aveva reso possibile con i suoi investimenti la nascita di organismi che avrebbero potuto realizzare l’autonomia finanziaria dell’Africa: la Banca africana di investimento (in Libia), la Banca centrale africana (in Nigeria), il Fondo monetario africano (in Camerun).

    Riscrivendo la storia, tutto questo viene cancellato e la Libia del 1969-2011 viene rappresentata come un non-Stato, una «multitudine di tribù» (definizione di stampo coloniale) tenute insieme dal potere di Gheddafi. Potere che indubbiamente esisteva, frutto delle fasi storiche attraversate dalla Libia, ma che si era allentato e decentrato aprendo la prospettiva di una ulteriore evoluzione della società libica.

    La Libia, dopo che gli Usa e la Ue avevano revocato l’embargo nel 2004, si era ricavata uno spazio a livello internazionale. Nell’aprile 2009, a Washington, la segretaria di stato Hillary Clinton stringeva calorosamente la mano a uno dei figli di Gheddafi, dichiarando di voler «approfondire e allargare la nostra cooperazione».

    Nemmeno due anni dopo, la stessa Clinton lanciava la campagna internazionale contro Gheddafi, preparando la guerra. Ora però, nel quadro della competizione per le prossime presidenziali, gli scheletri escono dall’armadio: documentate prove (pubblicate dal «Washington Times» e all’esame della commissione congressuale di inchiesta sull’uccisione dell’ambasciatore Usa a Bengasi nel 2012) dimostrano che è stata la Clinton a spingere l’amministrazione Obama alla guerra contro la Libia «con falsi pretesti e ignorando i consigli dei comandanti militari».

    Mentre la Clinton accusava Gheddafi di genocidio, l’intelligence Usa riferiva attraverso i suoi rapporti interni che «Gheddafi aveva dato ordine di non attaccare i civili ma di concentrarsi sui ribelli armati». Viene alla luce anche un documentato rapporto, inviato nel 2011 dalle autorità libiche a membri del Congresso Usa, sulle forniture di armi ai jihadisti libici da parte del Qatar con il «permesso della Nato».

    In quel momento il presidente Napolitano dichiarava che, «non potendo restare indifferenti alla sanguinaria reazione di Gheddafi», l’Italia aderiva al «piano di interventi della coalizione sotto guida Nato».

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