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Essere un altro #12

Immagina che uno sconosciuto, entrato in casa tua, dimostri di poter contestare la tua identità.

Chi è? Cosa vuole ottenere? Come riesce a manipolare le informazioni sulla tua vita? Ma soprattutto: tu chi sei?

Un romanzo a puntate (capitolo 12) sulla fragilità dell'identità nell'era di Internet.

Scritto da Osvaldo Duilio Rossi, dai consigli di Mario Pica.

 

Fino a pochi anni prima non sarei riuscito a spiccicare una parola e Arnaldi mi avrebbe fatto subire in silenzio tutte le sue falsità. Fino a qualche anno prima glielo avrei lasciato fare indisturbato; non sarei stato in grado di reagire perché ero gravemente timido, «introiettato», mi disse uno psicoterapeuta; uno dal quale smisi di andare nel momento esatto in cui fui costretto a risolvere un problema sul lavoro con un socio.

Producevamo scudi in fibra di carbonio leggerissimi e indistruttibili, per sostituire i carter dei vesponi e delle moto di grossa cilindrata; c’è tutta una fauna di maniaci che pensano di migliorare le prestazioni dei motocicli alleggerendo i telai, ma non calcolano che è impossibile rientrare dell’investimento. A dirla tutta, il mio socio produceva gli scudi, chiuso dodici ore al giorno in un garage, respirando esalazioni tossiche, senza assicurazione e senza partita IVA, preparando i modelli con polistirolo e resine epossidiche, cuocendo gli stampi in un’autoclave artigianale fatta con due scatole di cartone, quattro cerniere, un pannello di resina, un asciugacapelli e una manciata di tappi di sughero; tutto il giorno in compagnia di una radio e di un calendario. Io piazzavo gli ordini e le spedizioni, gestivo i contatti con i clienti da due siti per appassionati e una casella di posta elettronica; non avevo bisogno di incontrare nessuno e non dovevo parlare; passavo a ritirare i pezzi dal garage e li spedivo con pagamento in contrassegno; in sei mesi avevamo sbaragliato la concorrenza di aziende che avevano impiegato circa dieci anni a consolidare il mercato: ci odiavano e ci avrebbero perseguitato, se avessero potuto rintracciarci; invece Internet ci permetteva di non esistere e l’unica cosa che potevano fare era scrivere male di noi nei blog, però venivano sempre smentiti dai nostri clienti e noi continuavamo a crescere.

Per espanderci all’estero ci serviva l’inglese e investimmo per farmi andare tre mesi in Canada perché dai signori Schneider a Londra non avevo imparato niente; così a Whistler raggiunsi la famiglia che mi avrebbe ospitato per un mese, insieme a una ragazza cinese della quale non sono riuscito a sapere nulla, che sembrava una spia, un prototipo di giapponese tutto teoria e zero pratica che non imparò niente perché si ostinava a tradurre ogni sillaba con un marchingegno elettronico; c’era poi una norvegese che sognavo di scoparmi tutte le notti ma che, timido come ero, non mi azzardai mai ad attraccare. La mattina sciavo e il pomeriggio andavo a scuola di inglese, dove il primo giorno, mischiato a gente arrivata da tutto il mondo, me ne stavo in disparte e silenzioso; poi si apre la folla in corridoio, come il Mar Rosso, e un coatto mi viene incontro strillando: «Aò! Aò! So’ de Roma!» Mi si mise alle costole, ma imparai comunque l’inglese sfuggendogli come meglio potevo; me ne liberai definitivamente lasciandolo fuori di casa alle cinque del mattino insieme a un orso che cercava di abbattere un muro.

Tornato in Italia ero in grado di lanciarmi nei mercati internazionali e iniziai a frequentare qualche sito estero per piazzare anche lì la merce.

Nel frattempo, il figlio quindicenne del socio aveva imparato a fare le spedizioni e, neanche a dirlo, Internet era il suo ambiente naturale; così il socio pensò che non gli servissi più e me lo disse con la scusa che l’investimento canadese era costato il triplo rispetto al previsto, perciò potevamo lasciarci in amicizia, visto che avevo guadagnato una lingua nuova campando a sbafo per tre mesi. Obiettai che non poteva liquidarmi così e che, perdendomi, avrebbe perso anche il mercato internazionale. Rispose che se avesse avuto bisogno di me mi avrebbe fatto sapere. Accusai il colpo in silenzio, tornai a casa e non dormii per una notte intera.

L’indomani mascherai la mia casella e-mail con l’indirizzo di posta elettronica di un ispettore trovato sul sito della polizia postale e inviai al figlio del socio l’ordinazione di un carter, chiedendo di spiegarmi le modalità di pagamento e di fatturazione. Tre giorni dopo l’identità che usavamo per lavorare era sparita da tutti i siti e al garage non c’era più nessuno. Due giorni dopo feci un’improvvisata a casa del vecchio socio e impiegai un quarto d’ora al citofono per convincerlo che ero da solo; alla fine mi fece entrare, pretendendo di perquisirmi per verificare che non portassi microfoni, facendomi togliere la batteria dal cellulare, tenendo moglie e figlio al seguito per avere due testimoni. Insinuò che lo avevo denunciato perché sapevo che lui non avrebbe potuto provare che io ero implicato nella produzione dei pezzi in fibra di carbonio; disse che ero uno stronzo. Risposi che mi aveva sostituito col figlio senza pensarci due volte, così adesso il suo socio era lui; guardai il ragazzino: «ma per sua fortuna adesso sa cosa aspettarsi dal padre nel prossimo futuro. Nella migliore delle ipotesi, ha già imparato il sistema per tagliarti fuori appena avrà imparato a cuocere i pezzi al posto tuo».

Ora che li avevo messi uno contro l’altro, potevo fare il buon samaritano: «Nonostante le infamie che hai detto su di me posso ancora aiutarti a uscire da questa storia, proprio perché sono pulito», gli erano rimaste almeno trenta ordinazioni bloccate in cantina, che doveva far sparire per paura di qualche perquisizione. Caricai il materiale in macchina, spedii tutti i pezzi, allegai a ciascun pacco una lettera in cui spiegavo che, in vista di un rinnovamento aziendale, bisognava pagare il pezzo con assegno bancario trasferibile, intestato all’immaginario ing. Camillo, da spedire alla portineria del palazzo di un amico, che non esisteva più perché il portiere era stato liquidato tre anni prima, ma c’era ancora la cassetta delle lettere, semplice da aprire. I clienti, fedeli e soddisfatti come sempre, non fecero storie. Ritirai gli assegni, con la scusa di portare la colazione ogni mattina al mio amico; li girai un paio di volte con firme immaginarie, l’ultima delle quali a nome mio; li versai in banca e me ne andai in Brasile.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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