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Emirato afghano: non è un Paese per donne

Zabihullah Mujahid - il turbante che nella prima conferenza stampa dell’Emirato, il 17 agosto di due anni fa, rispondeva alle domande degli ultimi giornalisti stranieri rimasti ancora a Kabul - è la voce narrante e la presenza vivente d’un documentario curato da Najibullah Quraishi e Mike Healy apparso su Al Jazeera.

Viene proposto nel secondo anniversario dell’ingresso trionfale dei militanti islamici nella capitale afghana. Mujahid, che continua a ricoprire il ruolo di portavoce ufficiale dell’Emirato è un comunicatore all’apparenza mite, nel filmato viene mostrato sotto i monti che dominano Kandahar, il cuore pulsante dell’ex movimento guerrigliero diventato amministratore del potere. L’uomo, scortato da un paio di miliziani armati, incede fra l’immancabile polvere e i tanti sassi sino a raggiungere una collinetta sotto cui s’intravede un lago. E parla. Rammenta le sofferenze della gente e degli stessi combattenti che da vincitori devono trasformarsi in gestori del bene comune. E’ la nuova sfida cui sono chiamati i resistenti di ieri: nel luogo mostrato, l’area di Aino Mina, dovrà sorgere una diga che permetterà di rifornire d’acqua la città. Mujahid non dice entro quanto tempo. “Del periodo di guerriglia ricordo quasi la spensieratezza perché non avevamo responsabilità di governo… Durante l’occupazione straniera non avevamo neppure un posto piacevole dove riparare… Non potevamo girare liberamente nelle città… Oggi siamo felici… Abbiamo problemi economici, abbiamo fatto passi positivi, ma non abbastanza… La gente vive ancora fra crimini e sequestri… C’era un’epoca in cui gli aerei volavano sulle nostre teste, erano aerei statunitensi, ci mettevano paura… Abbiamo un emiro come leader, in accordo con la Shari’a l’emiro ha tutto il potere, se non ci fosse un leader il Paese potrebbe cadere perché ci sono sempre conflitti…”

Lo scenario cambia: Mujahid prende un volo per la capitale, deve raggiungere il Palazzo governativo dov’è il suo ufficio. Lì, fra le altre, riceve anche delegazioni di cittadini, imprenditori, mercanti. Giardini curati, edifici ben tenuti per un’immagine di decoro che assimili una Kabul ‘pacificata’ ai luoghi di rappresentanza delle nazioni che non vogliono concedere all’Emirato l’ufficialità agognata. “Ecco la bandiera dello Stato Islamico, bianca, simbolo del Jihad contro la corruzione americana… Il simbolo della libertà…”. Nel Palazzo lavorano mille dipendenti, nessuna donna. “Non abbiamo ostilità nei confronti delle donne, col tempo lavoreranno e studieranno… Negli uffici per i media incontro giornalisti, ma non solo… Il popolo non ha nulla, né cibo né salute… Ci sono problemi economici e depressione, occorre pregare Dio per risolverli…” Ed ecco la visita d’un gruppo di cittadini, clima informale e diretto: “Caro signore, in questo momento i container vengono fermati alla dogana che ha la facoltà di svuotarli. Quando giungono a Jalalabad il ministero delle Finanze sostiene che occorre pagare 10 dollari anziché uno… La tassa è cambiata, noi non possiamo pagare 9 dollari in più… Se la tassa sale aumentano anche i prezzi delle merci al dettaglio… Il Paese ha sofferto a lungo, è debole. Noi non veniamo qui con l’intenzione di danneggiare il governo… Noi vi sosteniamo, ma questo sostegno non alleggerisce le nostre finanze, non potete darci meno e invitarci a sostenervi…” Nel filmato, che illustra una mattinata del portavoce talebano, c’è spazio per due appuntamenti che toccano due nodi scorsoi della gestione talebana: la questione delle minoranze religiose, ovviamente islamiche nella fattispecie gli sciiti di etnìa hazara, i diritti femminili. Agli hazara, che continuano a costituire l’obiettivo di attentati con attacchi suicidi da parte del fondamentalismo soprattutto dell’Isis Khorasan, Mujahid dopo averli abbracciati e chiamati fratelli riserva un paragone: “La popolazione afghana è mescolata come l’acqua che non può separarsi se non costruendo una barriera. Quando rimuoviamo gli ostacoli, l’acqua si riunisce…” Il gruppo potrà considerarsi felice dell’accoglienza, non sicuro.

L’unica donna incontrata nella “giornata particolare” di mister Zabihullah è l’ormai anziana attivista Mahbouba Seraj (75 anni). Rientrata in Afghanistan nel 2003, dopo un lungo autoesilio negli Stati Uniti, Seraj aveva conosciuto la galera nel suo Paese dominato dalle faziose fazioni del partito comunista di fine anni Settanta. Nel periodo dell’occupazione Nato Mahbouba, che è anche una giornalista, ha lanciato il programma radiofonico “Il nostro caro Afghanistan”. Contemporaneamente sosteneva il network non profit Afghan Women impegnato nella difesa della salute di donne, madri e figli. Dopo l’avvìo del secondo Emirato Seraj è rimasta a Kabul, rifiutandosi di lasciare il Paese, una scelta che altre attiviste dei diritti non hanno potuto o voluto fare. I maligni sostengono che la discendenza reale di Mahbouba (è nipote del sovrano progressista del secolo scorso Amanullah Khan) l’abbia aiutata nella scelta. Certo, la sua notorietà internazionale anche in seno alle Nazioni Unite, le creano se non proprio una protezione un’aurea carismatica. Ma lei ci mette del suo, non vuole lasciare sguarnito un presidio durato vent’anni, sa che l’esempio, soprattutto delle attiviste più conosciute, non dev’essere sguarnito. Così denuncia l’apartheid creato dal nuovo regime, che mutila la vita femminile, impedendo ormai tutto. Istruzione sopra i 13 anni, lavoro, uscita di casa, ultimamente anche la possibilità di recarsi da una parrucchiera. E non importa che tante donne povere non possono comunque permetterselo, anche quest’impostura costituisce una gabbia e un’umiliazione di genere. Lei entra nell’ufficio di Mujahid quasi senza bussare “Non è possibile avere una generazione di ragazze che non vanno a scuola, tutto il mondo sarà contro di voi… E mentre l’interlocutore rammenta che c’è una parte di giovani e studenti oppositori del governo, facendo quasi intendere che l’esclusione deriva da questo, Seraj afferma perentoria: “Puoi prendere il potere con la forza, non puoi tenerlo con la forza…” Sembra un monito, diventa un messaggio nell’anno secondo del secondo Emirato. 

Enrico Campofreda

 

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