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Ebola, 21 giorni di quarantena possono non bastare

di Eleonora Degano

Se esiste il rischio di essere stati esposti al virus Ebola, uno dei provvedimenti necessari per minimizzare la possibilità di un contagio è una quarantena di 21 giorni. È così che il personale medico in Africa, e ora anche quello in Europa, hanno gestito i casi sospetti finora. La stessa Organizzazione mondiale della sanità, insieme al Centers for Disease Control and Prevention statunitense (CDC), concordava sul periodo di incubazione del virus stimato tra i 2 e i 21 giorni: trascorsi questi, in assenza di sintomi evidenti, è molto probabile che la persona non sia infetta o contagiosa. Eppure potremmo trovarci di fronte a un cambio di rotta, poiché uno studio di Charles Haas del Drexel College of Engineering ha messo in discussione questa tempistica. 21 giorni potrebbero non essere sufficienti.

Nella sua indagine On the quarantine period for Ebola virus, pubblicato su PLoS Currents, Haas ripercorre le ultime epidemie risalenti al 1976 (nello Zaire) e al 2000 (in Uganda), insieme ai dati su quella attualmente in corso. “21 giorni è il periodo stabilito come quarantena appropriata per tenere sotto controllo gli individui che potrebbero essere stati esposti a virus, in modo da ridurre il rischio di contagio. Eppure non sembra esserci stata una discussione sistemica sul perché di questo periodo”, spiega Haas. Lui sostiene sia necessario approfondire i fattori di rischio, i costi e i benefici, in modo da rivedere questo standard assunto ormai da tutti gli operatori sanitari. Nel caso specifico di Ebola, i risultati che emergono dallo studio dei dati di Uganda e Zaire variano di poco di fronte a un’analisi di questo tipo, pur considerando una deviazione standard, una percentuale di possibile cambiamento.

Quando invece si passa ai dati di altre epidemie, come quella che ha colpito il Congo nel 1995 o i report recenti riguardo all’epidemia recente nell’Africa occidentale, secondo i calcoli di Haas tale deviazione varia dallo 0,1% a un più preoccupante 12%. Questo significa che terminati i 21 giorni di quarantena potrebbe ancora esserci una possibilità fino al 12% che la persona osservata sia infetta. Quest’ultimo studio suggerisce quindi che i dati sui quali vengono stabiliti gli standard vengano riconsiderati, sapendo che la quarantena prevista al momento potrebbe non essere sufficiente. Per fare una valutazione a tutto tondo, spiega Haas, bisogna calcolare i costi e i benefici delle due possibilità, ovvero estendere la quarantena per maggiore sicurezza oppure rilasciare gli individui potenzialmente a rischio.

Ovviamente, trattandosi di una malattia contagiosa e potenzialmente letale, il costo di un errore sarebbe piuttosto salato. Un altro aspetto che andrebbe rivisto è l’organizzazione stessa dei periodi di quarantena e dell’ambiente in cui si svolgono. Provvedimenti più precisi permetterebbero ad esempio di evitare casi come quello di Nancy Snyderman, la corrispondente in Liberia per l’NBC, il network televisivo statunitense, che ha violato la quarantena insieme al suo team per andare a procurarsi da mangiare (un problema, quello del cibo in isolamento, che sembra ripetersi). Tutti loro si trovavano in quarantena in seguito al contagio del cameramen, e vi rimarranno ora per un periodo che è stato esteso fino al 22 ottobre.

Protezioni per il personale medico

Dopo il contagio dell’infermiera spagnola e delle due infermiere che hanno lavorato a stretto contatto con il primo paziente statunitense malato di Ebola, oltre alle incertezze sulla quarantena aumentano le domande e la preoccupazione riguardo alle protezioni a disposizione del personale. La priorità è permettere a tutti di lavorare in condizioni di totale sicurezza, e per questo è in corso un dibattito riguardo a quali siano le procedure più adatte e l’attrezzatura da impiegare in questo specifico caso, il personal protecting equipment (PPE).

Le linee guida fornite dal CDC raccomandano di attenersi alle protezioni prevista dai Recommended Standard, Contact and Droplet Precautions. Questo prevede due strati di guanti, vestiario e stivali chirurgici impermeabili, copertura per i capelli, maschera e scudi per il volto. Nella maggior parte dei casi, la maschera base usata in chirurgia andrebbe sostituita da un respiratore per particolati, l’N95, che aumenta notevolmente il livello di protezione aderendo a naso e bocca, schermando il 95% dei patogeni di dimensioni superiori agli 0,3 micron.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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