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E se gli alimenti meno sani costassero di più?

Uno studio condotto in Nuova Zelanda mostra che aumentando le tasse su zuccheri, sale e grassi saturi si ottengono effetti positivi significativi sulla salubrità degli acquisti dei consumatori

Cristina Da Rold

Sembra una domanda fantascientifica, e invece in Nuova Zelanda ci hanno pensato davvero, attraverso un esperimento sociale che ha analizzato risposte dei consumatori al cambiamento dei prezzi dei prodotti alimentari.

Uno studio, pubblicato in questi giorni su The Lancet Public Health, ha esaminato gli effetti di alcune politiche – introduzione di un’imposta sulle bevande zuccherate, di un’ imposta sui grassi saturi, e di una sul sale, e sussidi per frutta e verdura – sugli acquisti totali di alimenti per la casa e sugli acquisti di specifici nutrienti. Fra queste cinque opzioni, tre – l’imposta sullo zucchero, l’imposta sul sale e l’imposta sui grassi saturi – hanno mostrato effetti positivi significativi sugli acquisti salutari totali. In generale, più aumentavano le tasse e gli incentivi fiscali per frutta e verdura, maggiori erano le variazioni salutari nelle scelte alimentari degli acquirenti: gli aumenti del prezzo degli alimenti più ricchi di grassi saturi, zucchero e sale portano a marcate riduzioni negli acquisti, migliorando significativamente la salubrità del paniere generale, specie in termini di aumento di acquisto di frutta e verdura. Molto di più di quanto si osserva puntando su incentivi per l’acquisto di queste ultime.

Diverse revisioni sistematiche e meta-analisi pubblicate nell’ultimo decennio hanno valutato l’effetto di tali tasse e sussidi, e tutte hanno concluso che le tasse e le sovvenzioni alimentari sono efficaci. Sono comunque evidenti – stando a quanto affermano i ricercatori – i limiti metodologici di questi studi, tra cui una scarsità di studi sperimentali sulle imposte (al contrario dei sussidi) e una generalizzabilità limitata (ad esempio, in studi controllati randomizzati), assenza di un gruppo di controllo di alta qualità (ad esempio, in alcuni esperimenti naturali) e, soprattutto, una visione limitata degli effetti sulla dieta totale. Gli studi condotti fino ad oggi sono stati in gran parte limitati ai cambiamenti acquisto di singoli alimenti o nutrienti oggetto dell’imposta o del sussidio.

In questo studio invece, per la prima volta, i ricercatori hanno strutturato la ricerca elaborando un “supermercato virtuale”, dove i 1.132 acquirenti venivano assegnati in modo casuale a diverse serie di prezzi che emulavano una gamma di opzioni fiscali. In questo modo era possibile la generazione di dati affidabili sulle risposte dei consumatori al cambiamento dei prezzi dei prodotti. Sono stati raccolti dati provenienti da 4.258 negozi: 645 negozi di controllo, dove cioè non veniva applicata alcuna tassa o alcun incentivo fra quelli esaminati, 2.545 negozi in cui era prevista una sola delle azioni previste, e 1.068 negozi dove venivano applicate due o più azioni.

Inoltre per ognuna delle tre politiche che portavano benefici in termini di salubrità (tassa su zucchero, sale e grassi saturi), si sono registrati altri effetti “di sostituzione”, difficili da interpretare. Per esempio, quando i consumatori sono improvvisamente esposti a prezzi elevati (come è accaduto nello studio), i cambiamenti nelle abitudini di acquisto si traducono maggiormente in un aumento degli alimenti acquistati, perché si acquistano anche più frutta e verdura.
In ogni caso, se una tassa sui grassi saturi comporta un netto miglioramento della dieta sana, dipende da due aspetti: primo, dagli effetti relativi dei diversi nutrienti sulle malattie e sulla salute della popolazione; e da come l’industria alimentare potrebbe rispondere a un’imposta sui grassi saturi. Se l’industria alimentare sostituisce i grassi non saturi (ad es. Più oli vegetali) con grassi saturi negli alimenti in risposta a un’imposta sui grassi saturi, questo potrebbe evitare la riduzione dei grassi non saturi suggerita da questi risultati.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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