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E’ nato il Sud Sudan. Quale futuro per il paese?

Tre giorni fa è nato il Sudan del Sud. Dopo una serie di travagliate vicende che hanno visto come protagonisti, e antagonisti, il nord e il sud del Paese, il processo di pace ha portato alla divisione delle due entità. La popolazione ha certificato la sua volontà il 9 gennaio scorso attraverso un referendum di autodeterminazione che ha sancito la volontà di secessione per il 99% dei votanti. La comunità internazionale ha riconosciuto questo Paese dandogli legittimità e riconoscimento internazionale, ma la vera sfida inizia ora.

 

Ancora prima che l’indipendenza venisse ratificata, molti Stati esteri hanno accolto benevolmente questa nuova entità e promesso attività di cooperazione e collaborazione. L’obiettivo dichiarato è quello di sostenere la popolazione sud sudanese, dopo che questa è stata coinvolta nella più lunga guerra civile di tutta l’Africa, favorendo la costruzione di uno Stato fatto di stabilità, sicurezza, indipendenza reale e che sia in grado di svolgere il ruolo di partner diplomatico e commerciale, in primis nell’area regionale di riferimento.

Purtroppo, nonostante la scelta del nome Sudan del Sud che lascia aperto uno spiraglio per un possibile ricongiungimento, i fattori che contrappongono le due parti dell’ex Paese restano una minaccia per qualsiasi tipo di aspirazione. La secessione del Sud, non slegherà i destini dei due protagonisti. Con la separazione, infatti, il Sudan originario perderà, in sequenza, un quarto dei suoi cittadini, un terzo della sue superficie e, soprattutto, tra il 70-80% delle proprie risorse petrolifere, seguite poi dal 60% del suo bilancio e dal 90% della valuta estera. Decontestualizzata, questa situazione ha le proporzioni di una tragedia umanitaria.

Questa serie di ragioni pone il Nord in una situazione quasi di dipendenza dal Sud, il quale, invece, si appoggerà all’area settentrionale solo per le esportazioni del petrolio che passeranno da Port Sudan, lo sbocco sul Mar Rosso. Il Sudan del Sud, ricordiamolo, non ha sbocco al mare. Più in generale, poi, andranno strette collaborazioni su questioni economiche, ma soprattutto su quelle demografiche, il vero tasto dolente nelle relazioni tra le due aree dal 1955. Più o meno 13 milioni di persone saranno interessate direttamente dalla secessione e si tratta, in particolare, di coloro che, pur appartenendo a una delle due entità, al momento della separazione si troveranno a vivere dall’altro lato del confine, il più lungo nel continente africano, circa 2 mila chilometri.

Per quanto riguarda i milioni di meridionali che vivono al Nord, è molto probabile che continui, anzi aumenti dato che certificata dai fatti, la pratica di trattarli come stranieri: queste persone perderanno i loro posti di lavoro e praticamente ogni loro diritto verrà soppresso. Al Sud, invece, nonostante la proporzione di settentrionali presenti sul territorio sia notevolmente minore, il governo ha già confermato che permetterà a loro di stabilirsi nel Paese e, con ogni probabilità, concederà persino la cittadinanza.

La popolazione teme serie ripercussioni a causa dei rapporti tra i due Stati. In molte aree, vedi Abyei, il cui distretto è stato smilitarizzato il 21 giugno scorso dalle truppe etiopi inviate dall’Onu, dopo aspre dispute delle due parti in causa che si contendevano l’area, ricca di terra fertile e giacimenti petroliferi. Per il distretto di Abyei era stato istituito un referendum che avrebbe dovuto sancire la sua adesione al Sud o al Nord del Paese, ma è stato rinviato a data da destinarsi. Stessa situazione nel Sud Kordofan, la regione appena sopra Abyei, appartenente al Nord per ora, e in cui il potere dello Stato sembra assolutamente inesistente. Nel Darfur, regione tristemente nota per il genocidio iniziato nel 2003 e, nonostante l’ultima tregua del febbraio 2010, ancora sostanzialmente in corso, non sembra esserci una soluzione visti i difficili colloqui di pace. Una serie di situazioni, insomma, che minacciano seriamente l’intera area statale settentrionale.

Anche nel Sud Sudan, però, i problemi non mancano. Intanto, bisogna fare i conti con la milizia di opposizione ugandese dell’Al-Rab Army e quelle armate del sud, a causa delle quali la sicurezza è perennemente messa a rischio. L’SPLM, il Sudan People’s Liberation Movement, ossia il movimento di liberazione del popolo sudanese e braccio politico della SPLA, la milizia che ha combattuto la seconda guerra di liberazione sudanese contro il governo islamico di Khartoum dal 1983 al 2005, ha accusato il Partito del Congresso Nazionale del Nord di sostenere queste milizie. Restano aperte, inoltre, questioni sulla rimozioni di mine antiuomo poste sul territorio nei tempi passati e il re-insediamento di sfollati e rifugiati.

Ma è in riferimento alle questioni più propriamente economiche che il Sudan del Sud è atteso da sfide di proporzioni esagerate. In diverse regioni mancano le infrastrutture primarie e i servizi: dagli ospedali alle scuole, dalle strade ai ponti, l’acqua potabile, posti di lavoro. Poi c’è la sfida etnica, ossia far coesistere pacificamente i vari gruppi tribali presenti nel Paese, distinti tra loro per cultura e religione. E questa è sicuramente un’altra sfida primaria, visto che il Sudan del Sud si è posto come obiettivo quello di costruire una società solidale con tutti, senza emarginazioni, dove uguaglianza e pluralismo siano la regola, insomma, tutto quello che il Nord non è ha saputo fare con il Sud, motivandone il desiderio di separazione.

Tutto è reso ancora più complesso dal rapporto instabile tra i leader del Nord e quelli del Sud, deterioratosi, soprattutto, negli ultimi sei anni in cui, tramite il processo di pace, si è condiviso il potere sullo Stato originale. Oltre alla questione di Abyei che resta in piedi, l’incapacità di risolvere le controversie nel Sud Kordofan e nella regione del Nilo Azzurro, hanno convinto l’Onu e le due parti in causa a porre un dispiegamento di forze internazionali lungo l’intero confine. Questi accordi sono stati raggiunti ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, ma sono pesantemente osteggiati da diversi membri del partito che governa a Khartoum, i quali li definiscono un “Nifasha 2”, facendo il verso agli accordi avvenuti nella città del Kenia del 2005, in cui venne ratificata la pace sudanese.

I motivi di opposizione a questi accordi, secondo questi funzionari, stanno nel fatto che il Nord abbia già fatto pesanti sacrifici nel trattato di pace, sopportando la condivisione del potere e una serie di richieste definite provocatorie da parte del Sud. Per questo motivo, essi non sono disposti a fare ulteriori concessioni, sia per quanto riguarda la presenza di membri dell’SPLM nell’area settentrionale in seguito alla secessione, sia in riferimento ad altri possibili accordi con il nuovo Stato sulle regioni deil Sud Kordofan e del Nilo Azzurro. Lo stesso presidente del Nord, Omar Hasan Ahmad al-Bashir, in un primo momento, aveva rigettato gli accordi controfirmati da alcuni suoi funzionari. In seguito, però, una serie di fratture nel partito di governo e la preoccupazione che altre soluzioni, ritenute ancora più incomplete, potessero favorire un’insurrezione generale nel Paese per abbatterne il regime. In questo momento, ci sono tre scenari principali che potrebbero svilupparsi in seguito ai rapporti tra il neonato Stato del Sud e ciò che resta dell’originaria entità statale del Nord. La pace sarebbe la migliore delle ipotesi per entrambe le parti in causa, ma resta un obiettivo molto difficile da raggiungere: i problemi sul fronte interno, le difficoltà nel governare una società multietnica, multiculturale, multireligiosa, e le alleanze che ciascuno dei due Stati mantiene per porre pressioni sull’altro, sono il primo ostacolo. Al meridione si accusa il governo di Khartoum di sostenere le milizie dell’opposizione, dal nord rispondono che Juba finanzia i gruppi militari del Darfur. L’intervento dei vicini attori regionali, come la vicina Etiopia, e più in generale delle istituzioni internazionali sembra assolutamente necessario per svolgere una funzione di mediazione, ma il regime di Bashir e sotto accusa di fronte alla Corte penale internazionale proprio per la questione del Darfur, quindi ogni trattativa con lui e il suo governo risulta abbastanza complicata. Il secondo scenario possibile è anche quello peggiore, ossia uno stato di guerra in cui nessuna delle due parti è in grado di prendere il sopravvento a causa dell’interdipendenza che resta tra i due Paesi, in primis quella petrolifera, che condanna il Nord ad attendere le esportazioni provenienti dalle produzioni del Sud, il quale, allo stesso tempo, non può esportare il prodotto se non passando da Port Sudan. In una situazione simile, l’area regionale del Sahel verrebbe ulteriormente destabilizzata e si genererebbe un’opposizione ai governi delle due entità interna a una popolazione che da oltre 50 anni è coinvolta in una guerra civile. Infine, la situazione più probabile, in sostanza uno stato di fatti non classificabile né come guerra, né come pace, ma che risulterebbe ugualmente drammatica perché metterebbe a serio repentaglio le risorse di entrambi gli Stati, impegnati continuamente in piccole dispute per ottenere questo o quel pezzo di terra, e porterebbe al fallimento totale delle due economie. È la trama più facile da mettere in atto proprio perché la situazione attuale, che lascia in sospeso diverse questioni territoriali tra i due Paesi, è il naturale preambolo all’ennesima tragedia africana.

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