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E’ dura essere un Orango

Il Matang Wildlife Centre si trova a circa 35 chilometri da Kuching, la capitale malese del Sarawak, in Borneo. Parte del Parco nazionale Kubah, in cui ammirare le immense varietà di palme e le insolite rane notturne, assolve il ruolo di protettore della fauna selvatica locale, prendendosi cura di quegli animali che non riescono o fanno fatica a reintegrarsi nelle foreste circostanti e di quelli rimasti orfani. L'impresa risulta assai difficile, poiché, molti di loro, sono stati oggetti tra le mani umane per troppo tempo.

Ci sono molti volontari, i cui sforzi sono principalmente focalizzati sugli orango di questa regione, diversi da quelli dell'isola indonesiana di Sumatra. Matang collabora anche con il santuario più popolare tra i turisti, il Semenggoh, famoso per la possibilità di assistere al nutrimento degli orango semi-selvaggi. Ho la fortuna di vederne uno fuori dal suo habitat artificiale: insieme al suo piccolo, si dedicano alla fase di addestramento.

I ranger hanno definito le varie fasi del ritorno in natura come “scuola primaria e secondaria” nella Forest School. Li insegnano a costruirsi un nido, a procurarsi da mangiare, ad arrampicarsi. Stanno fuori dalla gabbia circa un'ora, facendo su e giù dalle liane e, quando è il momento di ritornare nel loro “appartamento”, il più piccolo balza sulle spalle, a mò di zainetto, di un volontario e il più grande fa storie, vuole stare tra gli alberi ancora un poco, ma poi cede e, tendendo la mano all'uomo, tornano al centro.

Questo piccolo episodio può fare sorridere e, come scriveva Francesco Piccolo in Allegro Occidentale, a proposito del commento di una signora italiana sugli indigeni dello Sri Lanka, potrebbe farci esclamare “sono tanto carini”.

Tuttavia, non riesco a sorridere quando vedo Aman, un grande Orango molto peloso, oserei dire quasi riccio, il quale penzola, molto lentamente, da un angolo all'altro della sua gabbia, con sguardo assente e dandoci le spalle. Non è l'unico ve ne sono altri quattro. Tutti, più o meno, nelle stesse condizioni.

Uno di loro, sempre lentamente, si avvicina alla torretta da cui lo sto osservando (lui è dentro un recinto con un grande spazio verde, a differenza degli altri), si siede, alza il capo e mi sorride. Potrebbe avere sui venti anni. Quanta tristezza e sensi di colpa in quel gesto.

Se riesco a comprendere la ragione per cui questi animali si trovino qui, non riesco a fare altrettanto quando vedo tre orsi malesi (il nome in malesiano è “colui che preferisce sedersi in alto” forse a causa della sua golosità per il miele), due bucerotidi (tipici uccelli di queste isole, con l'enorme becco e una specie di corno al di sopra di esso) e un gibbone. Sono tutte specie in via d'estinzione, ma resto dubbioso se sia il luogo giusto per loro, non godendosi la foresta.

L'interprete-guida che mi accompagna, imbarazzato, non sa rispondermi.

Mi avvicino al gibbone, il quale prende una buccia di banana, me la tira, sputandomi.

Una risposta sensata. 

 

Foto: Patrizia Soliani/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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