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Due o tre considerazioni sul voto romano

Gli elettori romani, oltre due milioni e trecentomila hanno costituito il "grosso" di questa tornata elettorale. Si parla di crollo della partecipazione, ma se si confrontano correttamente i dati nella Capitale la diserzione dalle urne sembra essere stata meno rilevante di quanto non si dica.

Alle elezioni comunali di Roma 2008, quelle che hanno portato Gianni Alemanno sulla poltrona di sindaco della capitale, era andato a votare al primo turno il 73,66% degli elettori e al secondo turno il 63,12%, esattamente 1.481.795 votanti.

Francesco Rutelli perse con 676.850 (il 46,34% dei voti). Al primo turno il centrosinistra aveva avuto 759.252 voti pari al 45,80%, ma la sinistra radicale si rifiutò in massa di portare i suoi voti in dote all’esponente centrista; e lo fece capitombolare.

Oggi, maggio 2013, nella stessa città ha votato il 52,81% degli elettori, quindi -21 punti rispetto al primo turno e -11 rispetto al ballottaggio del 2008 e ben il 24,7% in meno rispetto alle politiche di febbraio. Ma solo un - 4 scarso rispetto alle Regionali 2010 quando nel comune di Roma votò il 56,52 degli aventi diritto ed Emma Bonino con il 54,17% stracciò la Polverini (695mila voti; centomila in più dell’esponente di centrodestra).

In sintesi, nell’analisi giustamente impietosa del voto odierno, bisogna ammettere che né il 2008, né le ultime politiche sono la corretta pietra di paragone per valutare quanto l’astensione sia effettivamente cresciuta; il 2008 fu una competizione amministrativa svolta in contemporanea con le politiche nazionali che hanno sempre avuto ben altro appeal.

Oggi la coalizione che sostiene Ignazio Marino ha preso 512.720 voti, cioè il 42,60% (circa 30mila voti meno di quanto ha rastrellato la coalizione pro Bersani alle ultime politiche) e la volatilizzazione dei voti numerici del centrosinistra (più ancora che il suo calo percentuale) sembra più significativo rispetto al passato remoto piuttosto che al passato prossimo. Inoltre siamo al primo turno e i giochi si fanno alla fine della tornata elettorale quando l’inusuale sequela dei 19 candidati avrà lasciato il posto ai due soli contendenti finali.

Dove andranno i 114mila voti di Alfio Marchini, della storica famiglia dei costruttori comunisti romani ? E dove i 150mila grillini delusi da un candidato che di sicuro non ha riscaldato i cuori della capitale ?

Per Marino la questione cruciale sembra essere quella di recuperare almeno i 190mila voti perduti rispetto alle Regionali 2010 e l’impresa pare difficile, ma non è del tutto impossibile avvicinarsi almeno un po'.

E anche se confrontare i dati di oggi con le politiche dello scorso febbraio non è tanto corretto, ciononostante è un dato di riferimento che non evidenzia una débâcle del centrosinistra quanto piuttosto del M5S (150mila voti contro i 436mila di febbraio).

Rispetto alle Regionali si vede bene che l’astensione è cresciuta di poco, nonostante la drammaticità della situazione socio-economica e politica del nostro Paese negli ultimi due anni e mezzo e l'evidente delusione (per molti) delle ultime politiche.

Insomma, il centrosinistra sembra tenere nonostante le larghe intese, pur in un contesto globale di disaffezione verso la politica. Più debole il centrodestra e soprattutto appare severamente castigato il M5S per l’occasione perduta (e non più ritrovata) di far contare davvero gli otto milioni di voti rastrellati alle politiche (tre soli ballottaggi conquistati in tutta Italia e di autocritica nemmeno l'ombra).

Resta il monito - severo - che l’elettorato ha dato alle forze politiche tutte (Grillo compreso): continuate così e sarete legittimate a governare solo da un manipolo residuale di cittadini. Pericoloso perché in politica il vuoto non esiste; se non se ne occupano i cittadini se ne occupa qualcun altro.

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