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Dove ci porta il culto di Tsipras

Dalla lettura dei quotidiani di questi giorni viene un segnale allarmante: più o meno tutti ammirano il “coraggio” di Tsipras, la sua furbizia (che chiamano intelligenza) senza dire quasi mai esplicitamente che la sua scelta di ricorrere alle urne non è “un profondo atto democratico” (come sostiene Barbara Spinelli su “il Fatto quotidiano”) ma il ricorso a una clausola del contorto regolamento elettorale greco che chissà perché non consente agli elettori di indicare le preferenze nel caso di elezioni ravvicinate, e quindi delega la scelta delle liste ai soli segretari dei partiti (come nel cosiddetto Italicum).

Cioè permette a Tsipras di fare un “colpo di Stato” cancellando quella che viene chiamata arbitrariamente “minoranza” ma in realtà rappresenterebbe più della metà del partito se venissero convocati gli organi statutari! Non stupisce l’abbaglio della Spinelli, stupisce e rattrista che un pezzo di sedicente sinistra radicale abbia accettato appena un anno fa di assegnare compiti di arbitro a questa mediocre giornalista senza esperienze politiche, il cui unico merito era coltivare un indebito culto delle istituzioni europee grazie alla mitizzazione del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, associato alla figura di suo padre.

La rapida e truccatissima campagna elettorale che secondo le previsioni dei suoi sponsor di Bruxelles dovrebbe assicurare una facile vittoria al docile premier greco rappresenta un altro passo verso la cancellazione di ogni forma democratica, sia pur “borghese”, all’interno dell’Europa. Senza che quel che rimane di sinistra se ne preoccupi o si scandalizzi. Anzi. Grazie alla sua ignoranza dei fatti, può scrivere tranquillamente: “Perché la battaglia di Tsipras va sostenuta”. Lo fa Alfonso Gianni in un articolo pubblicato martedì sul “Manifesto” con grande rilievo (inizio in prima e poi tre quarti di pagina), fingendo di credere alle chiacchiere sulla “possibilità di difendere i redditi più bassi e di operare nel paese una progressiva resistenza alla applicazione delle parti più regressive (per usare l’aggettivo ripetuto dal premier greco) del Memorandum”.

Resistenza? Quale resistenza è possibile, mentre chi secondo Alfonso Gianni dovrebbe organizzarla giustifica la svendita di aeroporti trafficatissimi e redditizi, mentre accetta il taglio di altri 92 euro sulle pensioni di 420, mentre alza l’IVA che ricade sui ceti popolari? Tagli che entreranno in vigore a partire da ottobre, per cui si capisce la fretta di Tsipras: bisogna votare prima della verifica pratica del peggioramento ulteriore delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Ma soprattutto, quale resistenza è possibile quando la maggior parte di coloro che avevano sperato in una svolta si sentono beffati, e ingannati con belle parole che chiamano successo o “vittoria parziale” una sconfitta gravissima?

È la stessa esperienza fatta in Italia nel 1945-1947, quando il PCI al governo represse le mobilitazioni di disoccupati e le occupazioni di terre nel sud, fece accettare ai suoi iscritti lo sblocco dei licenziamenti, impose ai propri militanti di far rientrare nelle fabbriche i padroni e i manager odiati fuggiti in Svizzera perché collaborazionisti; fece amnistiare il 95% dei criminali fascisti, e lasciò andare in galera tanti partigiani, vittime di una magistratura reazionaria non epurata e rimasta quindi la stessa che aveva imperversato sotto il fascismo e i cui alti gradi si erano formati nell’Italia prefascista, che aveva poco da invidiare al fascismo quanto a repressione antioperaia e anticontadina. Il tutto, ripeto, spiegando che “non c’era altra strada”, che era “inevitabile”, che i sacrifici e le concessioni dovevano servire per “evitare la tragedia greca”. Mentendo, perché la “tragedia greca” era cominciata più tardi, quando il KKE si accorse tardivamente che le concessioni fatte al re, agli armatori e ai britannici, a partire dal disarmo dei partigiani sancito negli accordi di Varkiza, non avevano pagato e avevano permesso arresti preventivi della maggior parte dei partigiani che avevano salvato il paese.

Solo allora cominciò una impossibile guerriglia, quando le condizioni erano peggiorate su tutti i piani. Quella che in Italia veniva chiamata dal PCI e dal PSI “tragedia greca”, era stata semplicemente, nel dicembre 1944, la sanguinaria riconquista di Atene da parte delle truppe inglesi, in un paese che si era liberato da solo, aveva ancora nelle proprie mani un armamento pesante poderoso strappato alle truppe italiane, e aveva accolto le truppe alleate con fiducia, su consiglio di Stalin e degli ufficiali dell’Armata Rossa distaccati presso le truppe britanniche. Fu questa sistematica menzogna, che presentava come scelta autonoma quella che era solo la conseguenza dell’accordo di spartizione del mondo siglato tra Churchill e Stalin nell’ottobre 1944, quella che in Italia portò allo spostamento a destra emerso già nelle elezioni del 1946 e poi, con maggiore drammaticità, in quelle del 18 aprile 1948, che aprirono un feroce ventennio democristiano, quello che permise il cosiddetto “miracolo italiano” licenziando centinaia di migliaia di quadri operai combattivi, e lasciando eseguire alla mafia le condanne a morte ai sindacalisti siciliani e meridionali che resistevano.

In quell’inquieto secondo dopoguerra, i comunisti italiani, francesi, belgi, spagnoli (che avevano ripreso le armi contro Franco pensando che le “potenze democratiche e antifasciste” li aiutassero a spazzar via quella dittatura e quella analoga portoghese) furono sconfitti soprattutto perché scoprirono presto di essere stati ingannati, di aver accettato sconfitte non necessarie credendo che fossero vittorie o compromessi davvero inevitabili.

Oggi la vicenda greca, se la sinistra di Syriza non riuscirà ad organizzarsi in tempo (cosa non facile, per molte ragioni, dati i tempi molto stretti per riuscire a definire un progetto convincente e condiviso dalle diverse componenti della variegata Syriza), peserà su qualsiasi tentativo futuro di ripresa della sinistra in Europa (e anche nel Mediterraneo, in cui la Grecia con governo di sinistra si è dovuta piegare in questi giorni a collaborare con l’UE nel criminale blocco delle correnti migratorie).

Peserà soprattutto se si continuerà a ripetere che “non c’era altra scelta”, se non “tra la morte e la morte”, come ripete due volte nell’intervista la solita Spinelli. Negare l’esistenza di altre strade, anche difficili e lunghe, significa cancellare ogni idea di trasformazione e condannare la sinistra a una eterna giustificazione e accettazione dell’esistente. 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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