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Diritti riproduttivi delle donne: Vaticano e paesi islamici contro l’Onu

Anche il Consiglio Onu per i diritti umani ribadisce, con una recente risoluzione, la necessità di garantire alle donne il diritto di accedere alla contraccezione e all’aborto e di implementare politiche per la salute sessuale e riproduttiva. Tutto questo per salvaguardare la vita e l’autodeterminazione delle donne. Una possibilità ancora negata in molti paesi poveri, nei quali è forte l’influenza religiosa. E che causa la morte di centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo per malattia a trasmissione sessuale e complicazioni durante il parto.

Il quotidiano dei vescovi Avvenire ha ripreso ieri in tono allarmistico la notizia. La risoluzione approvata durante la ventunesima sessione dello United Nations Human Rights Council tenutosi a Ginevra viene descritta con preoccupazione come la “prima sostanziale apertura a questi livelli dell’idea dell’aborto come ‘diritto’ delle donne”. Contrari, soprattutto i paesi islamici e quelli più cattolici, con il supporto del Vaticano in qualità di osservatore.

In realtà ormai da anni ormai proprio le Nazioni Unite sono impegnate nel riconoscimento di questi diritti, come emerge dagli stessi riferimenti nella risoluzione e dalle linee guida tecniche tese a ridurre “mortalità e incidenza di malattie” tra le madri. Come più volte ribadito, con un “approccio basato sui diritti umani”: al fine di garantire gravidanze più sicure, migliorare l’accesso all’educazione sessuale, alla contraccezione ed eventualmente all’aborto, salvaguardare le donne da malattie sessualmente trasmissibili. E invitando i paesi a rendere possibile tutto ciò. Non si tratta quindi di uno sdoganamento improvviso e strumentale, come vorrebbero invece gli antiabortisti. I quali, senza il minimo imbarazzo, parlano addirittura di “manipolazione dei concetti” nei documenti.

E’ opportuno ricordare che Vaticano e associazioni no-choice collegate attuano da anni un massiccio interventismo per orientare in senso restrittivo le risoluzioni in sede internazionale. Come accaduto nella Conferenza Rio+20: tanto da far parlare di “asse del male contro le donne” del Vaticano, dei paesi islamici e di altre nazioni autoritarie. Ma come succede anche in singoli paesi, come le Filippine.

Una santa alleanza che in nome della ‘difesa della vita’, della morale e di un ulteriore, dissennato incremento demografico gioca proprio sulla pelle delle donne. Contro la più completa affermazione delle loro libertà e l’impegno delle organizzazioni che le rappresentano. Nonostante le ricerche mediche mettano in evidenza come sia necessario garantire alle donne l’accesso ad una adeguata educazione sessuale e alle più varie forme di family planning al fine di salvaguardarne la salute. Senza contare come la conquista di una maggiore autodeterminazione per le donne abbia influenza positiva anche sullo sviluppo e sull’affermazione dei diritti nei paesi più disagiati.

La risoluzione pro-choice adottata in sede Onu e fortemente voluta dall’Alto Commissario Navy Pillay — già attiva per arginare norme repressive a fondamento religioso contro gay e donne — è stata permessa anche grazie alla vigilanza dell’Iheu, l’organizzazione internazionale che riunisce varie associazioni di non credenti nel mondo, tra cui anche l’Uaar (che tra l’altro ha già finanziato progetti in favore di organizzazioni femminili in Uganda). E’ abbastanza curioso che i diritti delle donne, che tutti i sondaggi mostrano come mediamente più credenti degli uomini, siano difesi soprattutto da associazioni di non credenti. Ma non teniamo particolarmente a questa esclusiva: il mondo sarebbe senz’altro migliore se anche le confessioni religiose facessero proprie tali istanze. La lettura dell’edizione odierna di Avvenire non depone però a favore di un’imminente svolta in tal senso.

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