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Decreto Liberalizzazioni. Ma è cambiato veramente qualcosa? Quel senso di déjà vu

Sul suo blog sul Fatto, Fabio Scacciavillani rompe la cappa di compiaciuto unanimismo che avvolge il governo Monti. E lo fa con una serie di domande-test molto nette, per valutare cosa è effettivamente cambiato negli ultimi mesi in questo paese, e cosa potrà cambiare con l’approvazione del decreto sulle liberalizzazioni.

Le domande (retoriche) sono:

«Basta chiedersi cosa cambia per un investitore non puramente finanziario rispetto a tre mesi fa? Chi potrebbe mai convincersi che dopo questi decreti aprire un’attività o espandere una esistente possa convenire? Cosa dovrebbe indurre un imprenditore ad assumere o quantomeno a non licenziare? E come verrà riattivato il rubinetto del credito soprattutto per iniziative nuove»

Abbiamo il timore, che è quasi certezza, che nulla sia realmente cambiato o possa cambiare, anche ammesso e non concesso che il decreto liberalizzazioni non venga stravolto. Il problema è che, al solito, ci siamo entusiasmati per il calo del costo del nuovo debito, che è in misura decisiva frutto dell’azione (non immune da effetti collaterali differiti) della Banca centrale europea di Mario Draghi e, come nella migliore delle tradizioni italiche, abbiamo trovato una improbabile causalità, piena e diretta, nell’azione governativa. E vissero tutti felici e contenti.

Ma le cose non stanno esattamente in questi termini. Il governo Monti ha “salvato” l’Italia con una stretta fiscale imponente, anche perché i tempi impedivano realisticamente di prendere altre strade. Ma oggi siamo nelle abituali more dei mercanteggiamenti di caste e conventicole, che trovano confortevole rappresentanza parlamentare, mentre parolai e commentatori si compiacciono a stragrande maggioranza per l’azione governativa e tornano ed elucubrare onanisticamente su schieramenti e geometrie partitiche. Nel frattempo, fuori dalla portata del nostro governo, la costruzione europea resta gravemente incompiuta e destinata, con ogni probabilità, a produrre per lunghi anni una crescita esangue, che sarebbe tuttavia già un significativo passo in avanti rispetto al clima di “decrescita infelice” che stiamo sperimentando da un tre anni a questa parte.

Certo, a Monti non si può realisticamente chiedere di cambiare un paese in tre mesi, e neppure in diciotto, a dirla tutta. Ma cresce anche in noi, col passare del tempo, un disagio che deriva dalla percezione che le cose non stiano realmente cambiando, e non necessariamente per responsabilità diretta di Monti quanto per la terribile inerzia del sistema. L’esempio che ci torna in mente con crescente frequenza è quello del “salvataggio” del paese per opera di Giuliano Amato prima e Carlo Azeglio Ciampi poi. Che accadde, all’epoca? Un forte deterioramento di competitività e conti pubblici del paese, un evento traumatico esterno (l’attacco speculativo alla lira nel sistema monetario europeo, tale da indurne l’uscita per manifesta insostenibilità), il passo indietro del sistema dei partiti (peraltro bombardati da Tangentopoli), l’ascesa di governi “tecnici” che attuarono delle spaventose strette fiscali. Nulla di più, di fatto.

Oggi come allora? Si, ma anche no, visto che oggi siamo nell’euro e non esiste la via d’uscita delle svalutazioni competitive. Ecco perché è grande il timore che l’oligarchia parassitaria che sfianca da lustri il paese abbia solo attuato un ripiegamento tattico, in attesa di tornare a banchettare ed organizzare convegni per spiegarci come si declina. La colpa, ripetiamolo, non è di Monti, perché Monti non cammina sulle acque. La colpa è di un intero paese, che sta scivolando sempre più verso il declino ed il decadimento civile, oltre che economico. Scacciavillani scrive di due schieramenti che si fronteggiano: quello che vuole progressivamente espropriare la ricchezza accumulata nel paese, per alimentare la sovrastruttura clientelare-parassitaria-oligarchica (la narrativa del paese che divorò se stesso); e quello di chi vuole innovare il sistema e farlo respirare. Secondo Fabio quest’ultima componente sarebbe “numericamente maggioritaria” ma non trova rappresentanza politica. Noi non siamo affatto certi di questa prevalenza quantitativa dei “riformatori”. In Italia finora si è dimostrato che il sistema vive di cooptazioni, che sono poi quelle che ci hanno portato alla crisi fiscale.

Speriamo di sbagliarci su tutto, ma l’impressione di vivere in una “bolla” politica (o in un Truman Show, per banalizzare) cresce col passare del tempo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Geri Steve (---.---.---.54) 28 febbraio 2012 12:52

    io non so quale componente sia numericamente maggioritaria, ma il punto è che -come scritto- in Italia i poteri sia economici che politici sono basati sulla cooptazione: Monti dovrebbe ingaggiare dura battaglia per scardinare davvero le loro rendite di posizione, e non pare intenzionato.

  • Di pv21 (---.---.---.56) 4 marzo 2012 12:58

    Fiscal-blabla >

    Monti ha scelto di rinviare(?) di due anni l’adozione di una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Nel farlo subito, ha spiegato, correva il rischio di “abbaiare e non mordere” e di innescare una fuga di capitali all’estero.
    Ha quindi optato per una tassa “sul lusso” (auto di grossa cilindrata, barche oltre 10 metri, ecc.) da cui ricavare un gettito di circa 450 milioni.

    Dopo appena tre mesi già si registrano alcuni “imprevisti”.
    L’Unrae (unione costruttori autoveicoli esteri) segnala l’incremento di 5 volte del traffico in uscita dal nostro paese di “bolidi” e Suv da rivendere all’estero. Secondo l’Unrae l’effetto superbollo, visto anche il calo acquisti, rischia di generare nel 2012 la perdita del posto di lavoro per 10 mila addetti di concessionarie.
    E ancora.
    La “fuga” dai nostri porti di ben 27 mila barche/yacht è stata rilevata (a fine gennaio) dall’Osservatorio Nautico nazionale che ha quantificato in 104 milioni di euro il corrispondente minor introito per lo Stato ed in quasi 9 mila i posti di lavoro messi a rischio.

    Sintesi.
    Invece dei preventivati 450 milioni di maggiori entrate, da questa tassa “sul lusso” si stanno profilando danni erariali ed economici per almeno 2 miliardi di euro.
    Gli enunciati e le teorie accattivanti non bastano a risolvere una crisi che grava sul paese come Se fosse stagnazione

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