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Dalla fine del lavoro alla fine del tempo libero

Siamo talmente iperconnessi da vivere brevi periodi offline come esperimenti sociali e antropologici. Insieme ma soli, come argomenta nel suo più recente volume la psicologa Sherry Turkle indagando le conseguenze di un’esistenza continuamente interrotta dalle notifiche dei social media, della posta elettronica, delle infinite possibilità fornite da uno smartphone (oggi) o dalle tecnologie per la realtà aumentata come il Project Glass di Google (domani). Al punto che perfino chi ne critica l’approccio, come Nathan Jurgenson, concede che mai come ora abbiamo assaporato fino alle più sottili sfumature il tempo che trascorriamo lontani da Internet.

E che la domanda posta da Andrea Malaguti su La Stampa suona tutt’altro che retorica: «Alienati, soli, ultraconnessi. Liberi o definitivamene schiavi?». Non ho una risposta definitiva su un argomento tanto complesso, e di certo l’iperconnessione porta con sé un misto di vantaggi e svantaggi di cui attualmente è complesso stendere un bilancio esaustivo, e soprattutto scientifico. Tuttavia, il tema delle sue conseguenze sociali è entrato nel dibattito e nella consapevolezza pubblica molto di più di quello – altrettanto se non più importante – delle sue implicazioni per il lavoro.

Un esempio. Oggi All Things Digital ha pubblicato i risultati di un sondaggio di Good.com su come la costante connessione a Internet abbia cambiato le abitudini dei lavoratori negli Stati Uniti. I numeri sono degni di riflessione: l’80% degli interpellati continua a lavorare anche una volta lasciato l’ufficio, per un totale di 365 ore all’anno di lavoro aggiuntivo. Per un interpellato su quattro, l’iperlavoro ha portato a scontri con il partner. Anche perché il 40% continua a lavorare anche dopo le dieci di sera, e il 57% controlla le mail di lavoro anche quando è in gita con la famiglia. Il 69%, poi, non va a dormire senza averci almeno dato un’occhiata. E se per metà degli interpellati rispondere alla posta di lavoro ancora a letto o alle sette di mattino serve per meglio organizzarsi, l’altra metà sostiene «di non avere altra scelta che rimanere connessi». Il problema non è nuovo, tanto che in Brasile dallo scorso gennaio rispondere alle mail fuori dall’orario di lavoro viene retribuito come straordinario. Aziende come Volkswagen, Deutsche Telekom e Henkel, si legge sul Corriere della Sera, hanno risposto smettendo, o promettendo di smettere, di inviare posta lavorativa dai server aziendali fuori orario. In Italia, il Paese della guerra ideologica sull’articolo 18 e delle polemiche per una traduzione maldestra delle parole del ministro Fornero sul lavoro come diritto, non ricordo un sindacalista – o un sostenitore del libero web, se è per questo – averne fatto una battaglia di civiltà. Eppure, lungi dalle previsioni degli utopisti, il lavoro non è certo «finito» grazie alle macchine.

Semmai è cambiato, ed è cambiato il rapporto tra lavoro e tempo libero – in molti casi, a tutto svantaggio di quest’ultimo. Che questo fenomeno macroscopico sia passato pressocché inosservato agli stessi che si riempiono la bocca delle battaglie per i diritti dei lavoratori dimostra una volta di più che le conseguenze del digital divide vanno ben oltre il pur tragico ritardo nell’adozione di strumenti di e-government e di diffusione della banda larga. Se a interessarci davvero è la libertà degli utenti, e non solo di ciò che usano, sarebbe il caso di porre la questione all’ordine del giorno.

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