Dalla A alla V: l’insofferenza di un Continente
È il Venezuela, quando l'informazione si ricorda della sua esistenza nel mondo latino americano, a oscurare ogni altra notizia del Continente. È l’inconsistenza di una leadership come quella di Maduro a far notizia con il suo annaspare, scatenando la violenza, nel tentativo di rimanere su quella poltrona che fu di Chavez.

L’inflazione galoppa a oltre il 50%, mentre scarseggiano i generi alimentari e Maduro sventola lo spauracchio di un golpe fascista accusando gli Stati Uniti di fomentare le continue manifestazioni che trasformano la capitale, come altri centri urbani, in campi di battaglia, con violenti scontri, morti e feriti.


Nella punta più estrema del continente Sud America è l’Argentina che sta attraversando la stessa fase di protesta e crisi economica. Una crisi che passa inosservata sui media eppure la presenza italiana a Buenos Aires, come in tutto il paese, non sfigura con quella in Venezuela. Una distrazione dell’informazione italiana, come della politica, che nella presidenta peronista Cristina Fernandez de Kirchner ha trovato un interlocutore più affidabile del chiavista Maduro nello scambio commerciale e sino a quando gli interessi dei numerosi imprenditori italiani non saranno in pericolo si cercherà di glissare sullo sciopero generale dei trasporti che ha paralizzato il Paese lo scorso 10 aprile.
Uno scontento argentino in crescita e non solo per l’inflazione e la disoccupazione, ma anche per il pugno di ferro, ben più credibile di quello venezuelano, con il quale la Kirchner guida il Paese e riesce a minimizzare la protesta.
Dal nord al sud del continente latino americano gli Indios vengono emarginati e defraudati delle loro terre, anche nella Bolivia di Evo Morales, il primo presidente di origine indio, dove i nativi non vengono trattati con il rispetto dovuto agli esseri viventi. In Ecuador il “socialista” Correa offre ai cinesi parte della foresta amazzonica come riscatto del debito contratto, a discapito delle popolazioni autoctone.
In Brasile, a ridosso dei tanto glorificati mondiali di calcio, non si attenuano le tensioni alimentate dall’opera di “bonifica” esercitata dalla polizia nelle centinaia di favelas del paese. Solo a Rio de Janeiro sono 16. Dopo l’uccisone di un ventenne ballerino, scambiato per un trafficante di droga, e i conseguenti scontri con le forze dell’ordine, trasformatisi in guerriglia urbana che hanno causato la morte anche di un dodicenne, il clima esasperato non lascia spazio alla gioia di una competizione calcistica organizzata anche per celebrare un governo che dovrebbe essere il paladino del popolo, ma che dimostra solo una grande volontà di modernizzare un “continente” dalle grandi diseguaglianze.
Non sono solo gli scontri e gli scioperi all’ordine del giorno, ma un’impennata di omicidi e di saccheggi per il Brasile dove la stessa polizia sciopera e dove imperversa la “distrazione” di ingenti fondi per le strutture sportive e di accoglienza per la priorità di una migliore qualità di vita. Un investimento che, com’è stato dimostrato in Sudafrica, non porterà benessere ai brasiliani, ma solo ai ricchi.
Un assioma quello che una manifestazione sportiva che impegna tanti soldi non porti un duraturo benessere per la vasta popolazione brasiliana che indios sembrano condividere profondamente con le nuova protesta che hanno inscenato a Brasilia. Non solo lo spreco d’ingenti fondi in un paese grande quanto un continente e con una diseguaglianza imperante è motivo dello scontento dell’indio, ma anche per il poco interesse che i parlamentari stanno dimostrando nel mettere in calendario la discussione del progetto di legge che prevede modifiche alle regole di demarcazione delle loro terre.
Proteste pacifiche e agguerrite che hanno visto gli indio fronteggiare le cariche della polizia, non per nulla fatte a cavallo, con frecce e sassi, il tutto per chiedere terre alla capitale quello che gli è dovuto per nascita. Una posizione energica quella del Governo nello smorzare ogni forma di protesta che è costato al Brasile, tanto per rimanere nell’ambito calcistico, il cartellino giallo di Amnesty International.
Anche l’Argentina ha praticato il “risanamento” forzato di zone elette dagli indigenti come rifugio e dove negli acquitrini galleggiano, per l’alto tasso d’inquinamento, anche i sassi.
In Cile e in Colombia la resistenza delle comunità indigene e campesina è riuscita a bloccare l’approvazione di leggi che proibivano agli agricoltori di conservare e scambiarsi diversi tipi di semi, così obbligandoli a diventare debitori delle multinazionali come la Monsanto, rivendicando il loro ruolo di custodi dei semi per conservare la biodiversità.
La prepotenza perpetrata sulle popolazioni native in Colombia è uno dei tanti impegni di Amnesty International per la difesa dei più deboli, organizzando, insieme agli attivisti del Gruppo 056, un recente incontro romano sulle continue violazioni dei diritti umani.
Una violenza che le comunità indigene della Colombia, contadine e afrodiscendenti, insieme ai difensori dei Diritti Umani, continuano a subire nel conflitto civile del loro Paese.
L’Uruguay ha Josè Mujica, un presidente dalle minime esigenze di sostentamento e dal burrascoso passato di guerrigliero, che devolve circa il 90% del suo stipendio di 12.000 dollari al mese, facendosi bastare 1.500 dollari, per il suo lavoro alla guida del paese, a favore di organizzazioni non governative e a persone bisognose. Il suo mezzo di trasporto non è una lussuosa limousine, ma un Maggiolino degli anni Settanta. Josè Mujica sembra la versione laica di Papa Francesco che apre alle libertà individuali: sostenendo la depenalizzazione dell’aborto, il riconoscimento dei matrimoni gay e la legalizzazione della marijuana, per scardinare il monopolio dei narcotrafficanti, evitando la piccola criminalità, e poter controllarne l’uso.
Il continente Latino Americano cerca di ritrovare un posto nella crescita mondiale fuori dall’ingerenza statunitense, con il rischio di diventare vittima della neo colonizzazione cinese.
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