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Da Keynes a Friedman: l’inconvertibile perversione della nomotesi economista

La grave crisi economica succedutasi al crollo della borsa statunitense di Wall Street, nel “martedi nero” del 29-10-1929, convinse l’economista inglese John Maynard Keynes alla elaborazione della sua teoria fondamentale, la quale fu pubblicata nel 1936. Il titolo dell’opera, era: “Teoria generale della occupazione, dell’interesse e della moneta”.

Intanto, l’innescata crisi economica dilagava in tutto il mondo, coinvolgendo in particolare l’Europa, destabilizzando i governi con la ingravescente disoccupazione e contribuendo all’ascesa del nazismo in Germania, nel 1933.

La dottrina keynesiana apparve subito rivoluzionaria rispetto a quella classica di impronta settecentesca formulata da Adam Smith, la quale riposava sulla capacità di autoregolazione del mercato. Al suo posto, Keynes postulava l’intervento dello Stato, che a suo avviso costituiva il solo strumento capace di riavviare una economia ridotta allo stremo.

Principale interprete della nuova politica economica, fu il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Grazie al suo determinante contributo, il keynesismo dominò il proscenio economico mondiale per oltre 50 anni, propiziando, soprattutto negli USA e in Europa, un notevole sviluppo e una ridistribuzione della ricchezza a favore dei lavoratori. Tuttavia, se per un verso esso consentiva all’occidente di superare la crisi del ’29, dall’altra favoriva l’incremento del debito pubblico. Così che, alla fine degli anni ’80, molti Paesi, tra i quali primeggiava l’Italia, si trovarono pericolosamente indebitati. Come conseguenza di questa situazione, si registrava un notevole aumento dell’inflazione. Attraverso quelle manifestazioni, il keynesismo dimostrava di esser giunto al capolinea e apriva la strada alla “teoria monetarista”.

Promotore della nascente dottrina economica, era stato Milton Friedman, il quale invocava il ritorno alle “teorie classiche”, secondo le quali il compito dello Stato doveva limitarsi alla politica della moneta soltanto per assicurare la stabilità nel lungo periodo. Stando a questa teoria, la piena occupazione cessava di essere l’obiettivo prioritario; al suo posto, si poneva l’inflazione, che diventava così il vero nemico da battere. L’assistenzialismo, comportante secondo tale teoria l’abnorme espansione del poco produttivo apparato statale, andava ridimensionato. Anche le tasse andavano abbassate, fino ad assestarsi su una tassa uniforme e quindi non progressiva in funzione del reddito.

Friedman espose la sua teoria nel 1969, con la pubblicazione del suo libro dal titolo “La quantità ottima di moneta”. Essa venne successivamente ripresa e sviluppata dalla “Scuola di Chicago”, da dove fece proseliti in tutto il mondo, diffondendosi soprattutto fra le classi dirigenti.

Il neo-liberismo propugnato da quella teoria, divenne politica ufficiale grazie al contributo venutogli da Ronald Reagan e dalla “lady di ferro”, Margaret Thatcher. Esso condizionò anche la transizione dei Paesi dell’est europeo dall’economia di Stato a quella di mercato. In America latina, lo stesso appalesò invece i suoi limiti.

Il neo-liberismo sembrava adatto al controllo dell’inflazione, ma a condizione di mantenere prezzi che soltanto i Paesi solidi potevano sopportare. Altrimenti, come nel caso dell’America latina, determinava soltanto vertiginose cadute socioeconomiche, con pesanti drammi sociali. La sua epigrafe si compendia in questa locuzione: “L’economia è risanata, ma intanto il malato, cioè il popolo, è morto”. Che è poi quel che capita tuttora in Europa, e soprattutto in Grecia e in Italia.

Tali considerazioni non implicano però un ritorno al keynesismo. Non lo si può invocare di fronte alla ipertrofica globalizzazione economica in atto, e dal momento che il keynesismo originario trovava applicazione entro i confini dei singoli Stati nazionali che effettuavano gli omeostatici interventi monetari. Attualmente, è stata demolita e demonizzata la sovranità nazionale. Adesso la pianificazione statale viene decisa al di sopra dei singoli Stati.

Il keynesismo e il monetarismo hanno elaborato teorie volte a fronteggiare la recessione e la superinflazione. Questo può dimostrarsi positivo in funzione delle specifiche esigenze economiche. Esse lasciano però aperta la questione delle prospettive generali, le quali trascendono le manovre contingenti. L’auspicio è pertanto quello di trovare modalità diverse di intervento, piuttosto flessibili e non coercitive, da parte delle singole istituzioni nazionali e internazionali. Non sottovalutiamo però il fatto che l’inizio di questo secolo abbia promosso un liberismo selvaggio: un fenomeno socioantropologico spregiudicatamente spalleggiato da una sinistra ormai completamente avulsa dalle sue originarie radici storiche, divenendo così “asinistra”, e ignominiosamente genuflessa ai piedi di un sempre più dissoluto e perciò destabilizzante coacervo finanziario capace di produrre inaccettabili disuguaglianze sociali di portata mondiale, emblematicamente compendiate da un economista e sociologo, Ralf Dahrendorf: “Il mercato globale introduce la disintegrazione sociale, mentre c’è esigenza di coesione e solidarismo”.

 

Riferimenti:

Sinistra o asinistra?

La becera nomotesi degli economisti

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