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Da Arcore a Pechino, il dispotismo non ha frontiere

Da Arcore a Pechino, il dispotismo non ha frontiere

Sono arrivati fino a notte fonda i nostri scodinzolini senatori per portare al padrone il testo del ddl sulle intercettazioni. Quando si è tolto la voce al popolo cosa resta? Un regime despota.

Dopo la repressione delle proteste contro l’occupante cinese della primavera del 2008, il Tibet a subito la museruola del potere centrale. La protesta messa a tacere nel sangue, gli arresti e le esecuzioni capitali non sono bastate a far piegare il popolo tibetano. Monaci, insegnanti, scrittori, blogger e cantanti, tutti i portatori di voce sono stati messi dietro le sbarre e nei campi di rieducazione. Ma l’instaurazione del terrore non è bastata a spegnere le voci. Anche il silenzio si deve colpire. Parlare la lingua materna è un indizio di colpevolezza, scriverla è un reato.

Gli han (i cinesi) vogliono farne un attrazione per turisti, ma guai a usarla per comunicare. Si arriva così a volerne vietare ogni sua manifestazione. I media sono già controllati, la rete oscurata. Ma c’è ancora da epurare. Le suonerie dei cellulari che riproducono canzoni popolari tibetane sono bandite perché considerate «nocive» e per poter fare una fotocopia di un testo tibetano bisogna presentare la carta d’identità, essere registrati perché considerato materiale suscettibile d’essere utilizzato per «condurre attività illegali o da parte di criminali».

A questo punto si può anche immagine nell’assurdo le prossime tappe. Vietare le bandiere di preghiere o doversi registrare per comprare una matita. Ma sicuramente qualcuno ci avrà già pensato.

Leggi anche:

Il bando alle fotocopie, “nuovo bavaglio per i tibetani” - AsiaNews
China Aims to Stifle Tibet’s Photocopiers - NYTimes
China targets Tibet artists, intellectuals: report - Reuters
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