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Cronache da Locarno 4/ “Pietro”, un’italiano vero a Locarno

C’è un solo film italiano in concorso a Locarno quest’anno e Goffredo Fofi, sull’Unità di domenica scorsa, ha scritto, con franchezza tutta sua, che Pietro di Daniele Gaglianone forse è un capolavoro, forse no; ma che sicuramente è un’opera più coraggiosa e interessante di tutte quelle italiane presenti a Venezia.

Un film sui “penultimi”, lo definisce Fofi, su quelli che nell’Italia contemporanea non hanno ancora toccato il fondo definitivamente, ma stanno per arrivarci. Si tratta delle persone che si conformano al loro ruolo di “periferici” finchè possono, finchè le loro esistenze non collassano in gesti crudeli ed eclatanti; gesti non più feroci, in ogni caso, della solitudine e della violenza che quotidianamente i penultimi incassano dal mondo circostante, con serialità. Con remissività.

Pietro è uno di loro, ragazzo della periferia torinese con le caratteristiche dello “sfigato”, condannato a fare il buffone in una corte di gente vociante e disperata, tossici e spacciatori, comitiva di amici a cui il fratello eroinomane l’ha introdotto, quasi fosse una giustificazione vivente e il capro espiatorio dei suoi personali fallimenti. I loro genitori sono morti e i due fratelli vivono in un appartamento che cade a pezzi, teatro di un via vai continuo di umanità distorta, aggressiva, eppure cosciente del proprio degrado. Pietro deposita volantini sotto i tergicristallo delle auto in sosta e ne riceve in cambio, da un datore di lavoro aguzzino e irascibile, pochi soldi e in nero. Il mantra di sopravvivenza del protagonista, vedo-non vedo, vedo-non vedo, si ripete più volte lungo la pellicola; e attraverso lo sdoppiamento dell’azione dall’audio, veniamo introdotti a ciò che Pietro sceglie di ascoltare e di vedere, per proteggersi, per non soccombere.

Ma l’isolamento quasi autistico dal mondo circostante funziona fino a un certo punto perchè, quando a diventare bersaglio è un’altra penultima (“con qualcuno bisognerà pur prendersela” spiega in una scena uno dei personaggi), una giovane immigrata conosciuta da Pietro sul lavoro, il ragazzo abbandona la sua remissività e reagisce, cambia sguardo.

Così gli eventi precipitano e gli invisibili diventano fatalmente visibili. Perché pericolosi. Una parabola aderente e calzante alla realtà di tutte le periferie, fisiche e sociali, delle città italiane; nelle quali si realizza quella feroce alchimia che parte dalla povertà, dal degrado, dallo sfruttamento e porta dritti dritti alla violenza. Un brodo di coltura che tornerà poi utile a chi gestisce il consenso politico e sociale, facendo leva sulla paura e costruendo sempre nuovi nemici.

Altro che lavare i panni sporchi in famiglia, risponde Gaglianone a chi gli contesta che il suo film non restituisce delle città italiane un’immagine giusta (leggi: positiva). Dice: “io non dico che in Italia sia sempre e solo così o che anche la classe media non stia soffrendo il malessere del paese. Ma, di fatto, quello che racconto io esiste davvero e, in generale, le aree di marginalità si stanno ingrandendo”.

Un monologo lungo un po’ di minuti (la cui necessità è stata anch’essa convintamente difesa dal regista in conferenza-stampa) e affidato al protagonista, ormai all’apice della consapevolezza, chiude il cerchio di significato della vicenda di Pietro, il più lucido e il più realista di tutti.

Pietro Casella-l’attore interpreta Pietro Casetta-il protagonista ed è una sorpresa immensa di cui, probabilmente, si accorgeranno anche dalle parti della giuria. Un’interpretazione articolata, sofferta e indispensabile al film, la sua. Tutti gli attori, che costituiscono già una piccola comunità artistica che lavora insieme da tempo, fanno un buon lavoro di squadra perchè la figura di Pietro si imprima nel film.

Il film, preparato a lungo ma realizzato di getto e in pochi giorni, ha evidentemente trasformato questa rapidità operativa in urgenza narrativa, in crudezza espressiva, in genuina sincerità comunicativa.

Pietro rimane negli occhi anche dopo la proiezione.

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