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Cronache da Locarno 1/ Nel profondo bosco del cinema

Il 4 agosto si è aperto il 63° Festival del film Locarno, nella omonima cittadina svizzera, in questi giorni spesso piovosa, in riva al Lago Maggiore. Il nuovo direttore artistico, il francese Olivier Père, promette un’edizione coraggiosa ma soprattutto popolata di giovani, come potrebbe testimoniare ad esempio il livello generazionale delle giurie, composte da registi, filmaker e attori poco celebri e dall’età media molto bassa.

Il festival si è aperto in Piazza Grande con Au fond des bois del francese Benoit Jacquot, ambizioso esploratore di mondi sentimentali. I suoi riferimenti sembrano quelli lontani della tragedia greca, del continuo gioco umano oscillante tra la bellezza apollinea, armonica e morale, da una parte e quella dionisiaca, carnale, troppo umana, dall’altra.

Siamo nel 1865 e un giovane girovago, una specie di elfo abitante dei boschi, arriva nel sud selvatico della Francia e si invaghisce di Josephine. Dopo lungo spiare si introduce a casa sua, ne incanta il padre con trucchi da prestigiatore e ne gode l’ospitalità fino ad abusare sessualmente della ragazza e a trascinarla in fuga con sé, fascinandola e ipnotizzandola, nella profondità dei boschi. Josephine è sopraffatta dal volere e dal potere di Timothée e, combattuta tra l’incantesimo e il disgusto, non riesce ad allontanarsi dal suo amante-aguzzino e finisce travolta nel gorgo passionale della carne.

La sorprendente e incantevole Isild Le Besco, già musa ispiratrice del regista in altri 4 film, gioca la sua interpretazione sul filo dell’ambiguità e finisce per trasformarsi in elemento naturale tra gli elementi naturali dei boschi e della montagna, veri protagonisti del film. La fuga diventa infatti anche liberazione del corpo e della mente, epifania di Josephine a se stessa, immersione nel dark side dell’istinto animale.

Il regista instaura una sorta di corrispondenza, un’affinità costante tra i personaggi e un ambiente naturale incontaminato e terribilmente bello, fotografato con sapienza da Julien Hirsch.

Come nel mito tragico greco della Medea, che posseduta dal demone dell’amore per Giasone perde gradualmente tutti i suoi poteri occulti, anche Timothée si ritrova improvvisamente spogliato della sua capacità magica e ipnotica quando, oltre il furioso desiderio iniziale, viene travolto dal sentimento per Josephine.

Incombe il ritorno alla civiltà per i due, che si concretizza con l’arresto di Timothee; l’ambivalenza della ragazza, vittima e innamorata come in una sindrome di Stoccolma ante-litteram, persa in una dinamica irrisolta di odio-amore, spiazzerà tutti gli altri personaggi del film. Ed è nella civiltà che il mondo magico si dissolve definitivamente e Il ragazzo-elfo riacquista occhi totalmente umani. Come per la Medea raccontata da Euripide, l’allontanamento dalla barbarie e l’arrivo nella civiltà, comporta la perdita di ogni sapienza e di ogni facoltà occulta. 

A dare il colpo di grazia all’aura di incantesimo nero della storia è l’apparizione della locomotiva, emblema per eccellenza della civiltà moderna e continuo presagio di allontanamenti.

Un film che piacerebbe molto a Nick Cave che, a proposito di canzoni d’amore, ha scritto che tra passione e dolore, l’una non può fare a meno dell’altro e viceversa, semplicemente coesistono. L’amore più forte è quello sospeso sul burrone, quello che parla la lingua del dolore, del sangue, della paura, talvolta della morte.

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