• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Economia > Crisi: origini e rimedi

Crisi: origini e rimedi

La crisi che attanaglia il nostro Paese, e l’emisfero occidentale intero, ha origini profonde, che vanno ben più a fondo dei problemi che si sono palesati nel 2008. Ma procediamo con ordine; tentiamo di tracciare un percorso logico che ci porti a capire cosa ha scatenato il pandemonio che ha portato Paesi come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia sull’orlo della rovina.

Partiamo proprio dal 2008. Il contagio arriva dagli Stati Uniti, il baluardo del capitalismo. È facile intuire come tale infezione si espande al resto del mondo: gli USA rappresentano, da soli, circa ¼ dell’economia mondiale. E la relativa stabilità sui mercati finanziari di New York, che durava da circa vent’anni (l’ultimo crollo preoccupante si ebbe nel 1987), aveva attirato i capitali dei colossi bancari europei (UBS in primis; tra l’altro è lo stesso motivo per cui il fallimento di Detroit si ripercuoterà sulla già martoriata economia europea; UBS, infatti, aveva scommesso su obbligazioni emesse proprio dalla città dell’automotive made in USA per eccellenza, che ora, naturalmente, non frutteranno nemmeno un centesimo). Il crollo del 2008 è da imputare ad un Cigno Nero (per citare N. N. Taleb): il verificarsi contemporaneamente di una crisi dei mutui sub-prime e del mercato immobiliare.

Sicuramente ne avrete sentito parlare fino allo sfinimento, ma ritengo sia opportuno tracciare un piccolo riassunto di quanto accaduto.

I sub-prime sono mutui concessi a soggetti con scarsa capacità di onorare il debito. Rappresentavano una quota minima dei mutui concessi dalle banche (si parla di un 5%). E fin qui nessun problema. I dolori arrivano con gli strumenti derivati. Essi non sono il male segreto che attanaglia le viscere del mondo, com’erano stati dipinti appena dopo lo scoppio della crisi, eppure possono essere dannosi se usati “furbescamente”. Il problema è proprio questo: i maghi di Wall Street nascondevano dietro una matematica usata come specchietto per le allodole il fatto che gli istituti per cui lavoravano (e lavorano, sic!) erano esposti ad un rischio inimmaginabile e assolutamente imprevedibile. Usavano complicate equazioni di base gaussiana per prevedere gli avvenimenti dei mercati finanziari. È come usare una canna da pesca per pescare un marlin.

Fatto sta che cartolarizzarono i sub-prime, intaccando così vari titoli che però non videro mutato il loro rating (Moody’s, S&P, Fitch: avevate il salame sugli occhi?).

Il procedimento sarebbe continuato indisturbato se, contemporaneamente, non fosse arrivato, come una doccia fredda, lo scoppio della bolla speculativa che aveva interessato il mercato immobiliare, e la conseguente crisi.

I beneficiari dei sub-prime davano come garanzia la casa che, in genere, il mutuo serviva ad acquistare e le banche contabilizzavano tali immobili. Il problema sta nel fatto che, col crollo del mercato immobiliare, gli istituti di credito si ritrovarono con immobili cui avevano assegnato un valore più alto di quello effettivo.

L’incapacità di solvenza da parte dei soggetti beneficiari dei sub-prime causò un rallentamento generale dell’economia (ricordate la cartolarizzazione?), un massiccio pignoramento delle case, che però non riuscirono ad essere vendute. Il motivo è semplice quanto inquietante: il loro valore effettivo era ben inferiore a quello contabilizzato dalle banche, e il ceto medio attraversava un momento di ristrettezze economiche (che impediva l’acquisto di nuove case) proprio in seguito al raffreddamento dell’economia di cui sopra. È facile intuire che si tratta di un cane che si morde la coda.

Con lo scoppio della bolla speculativa, pertanto, le attività delle banche crollarono, e si ebbero tutte le drammatiche conseguenze di cui siamo stati testimoni. All’inizio dicevo che le radici sono, però, un po’ più profonde. Bisogna tornare agli anni ‘90, quelli dei Nirvana e delle camicie di jeans, per capire il perché le banche potessero comportarsi così allegramente ed esporsi in modo sconsiderato ad un rischio enorme.

Proprio in quel decennio, negli USA, si ebbe una deregolamentazione che ha permesso, nel 2008, la propagazione della crisi. Venne meno, infatti, la distinzione tra banche commerciali e d’investimento, quelle “buone”, che concedono prestiti alle famiglie e alle imprese, e che ne gestiscono il deposito risparmi, le quali hanno l’obbligo di detenere riserve, e quelle “senza scrupoli”, che investono il capitale depositato presso di loro.

Scomparsa tale distinzione, le banche iniziarono a fare investimenti senza detenere sufficienti riserve, sfruttando al massimo l’effetto leva finanziaria, esponendosi in tal modo a rischi inimmaginabili (la controparte, però, erano guadagni incredibili). Come ho avuto modo di dire precedentemente, il rischio era trattato in modo gaussiano, e questo rende ciechi al Cigno nero, all’evento imprevedibile.

Alle prime avvisaglie della crisi, si ebbe una corsa agli sportelli per mettere i soldi sotto il materasso (le banche, com’è facile intuire, non erano viste più di buon occhio), e la mancanza di riserve favorì la comparsa anche di una crisi di liquidità, che diede il colpo di grazia ad un’economia già sull’orlo del baratro.

Ricapitolando: deregolamentazione, bolla speculativa sul mercato immobiliare, cartolarizzazione e sub-prime sono i motivi che hanno spinto giù dal precipizio gli Stati Uniti. E hanno messo in ginocchio il vecchio continente, che li ha importati, tra le varie cause, anche grazie alla cartolarizzazione dei titoli e al mancato cambiamento del rating che ne potesse indicare l’accresciuta rischiosità.

Tralasciamo solo per un secondo l’ottica europea e concentriamoci sul Bel Paese. Per una volta, il detto “chi non fa nulla non sbaglia nulla” torna a nostro favore. Le banche italiane sono state quelle meno colpite in assoluto da questo sconvolgimento finanziario, anche perché sono quelle “meno attive” nel campo del rischio. Il problema che attanaglia la nostra Italia è una perversa combinazione di elevato debito pubblico, originato negli anni ‘60/’70, quando prendere denaro a prestito era praticamente gratuito, e bassa crescita dell’economia, originata, tra gli altri motivi, da una stagflazione che non sembra voler mollare la presa, nonostante i (timidi) processi messi in atto dai governi (che, se analizzati in profondità, finiscono quasi per alimentarla).

Ma torniamo alla situazione USA post crollo. I problemi di debito causarono sofferenze per le banche, quello che in termine tecnico è chiamato “credit crunch”, il cui spettro non cessa di aleggiare sull’economia globale a cinque anni dal crack. Si tratta di una stretta creditizia che riguardò famiglie ed imprese. Essa causò (e causa tuttora, anche in Italia) il mancato ingresso sul mercato di nuove imprese e la difficoltà di finanziamento per quelle esistenti, e, per le famiglie, la difficoltà di accedere a prestiti e mutui, oltre all’aumento delle tasse nei Paesi con alto debito (ne sapete qualcosa?).

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento della disoccupazione e riduzione dei consumi. Non stupisce, quindi, il crollo della fiducia delle famiglie, che non si aspettano che lo stato delle cose migliori nel prossimo futuro. Ciò non ha fatto (e non fa) altro che acuire i problemi esistenti.

Come dicevamo prima, il crollo del valore del collaterale che le banche avevano contabilizzato (le case, per intenderci) causò perdite ingenti per gli istituti stessi, i quali fallirono, oppure ridussero il credito a famiglie e imprese.

Prendere a prestito risultò estremamente costoso, ossia il tasso d’interesse sul credito divenne molto maggiore di quello sui depositi. Le imprese, pertanto, ridussero (e riducono tuttora, quando non sono costrette a chiudere) gli investimenti perché estremamente onerosi e si piombò in una situazione di trappola della liquidità (della quale ci siamo liberati a caro prezzo).

Proprio per uscire dall’impasse, le autorità di politica economica misero in atto manovre di quantitative easing che, benché ci abbiano condotti fuori dall’imbarazzante situazione dei tassi d’interesse vicini allo 0, hanno peggiorato il debito.

Anche il nostro è peggiorato (nel momento in cui scrivo, il rapporto debito/PIL è circa il 130%), situazione che ha fatto aumentare lo spread e che ha portato al governo del Professore e a tutte le conseguenze di cui siamo testimoni ancora oggi.

E ora, la parte che tutti aspettavate: come uscire da questa condizione?

Posto in essere che chi scrive è forse uno dei più accesi europeisti esistenti (in modo critico, per carità), il rimedio migliore sarebbe l’unione fiscale europea. L'unione fiscale permetterebbe di ottenere due risultati: da un lato consentirebbe a un paese in difficoltà di ottenere i trasferimenti di cui necessita dall'ente sovranazionale, anche nel periodo in cui contribuirebbe meno al bilancio collettivo sotto il profilo fiscale (perché affronta un periodo di depressione).

E soprattutto, giacché il debito sarebbe a quel punto garantito a livello sovranazionale, il tasso d’interesse applicato al debito del paese in questione non sarebbe determinato dalle aspettative sul suo andamento futuro, bensì sarebbe il prodotto della media europea (e quindi più basso). Questo non eliminerebbe del tutto l'instabilità (perché connaturata con un'economia aperta), ma ridurrebbe drasticamente il rischio di default dei paesi membri dell'Unione e quindi i rischi di sistema per l'Unione stessa, senza contare l’incremento di competitività di cui l’UE beneficerebbe a livello mondiale.

 

Bibliografia:

- O. Blanchard, A. Amighini, F. Giavazzi, “Macroeconomia”, Ed. Il Mulino

- K. G. Persson, “Storia economica d’Europa”, Ed. Apogeo

- N. N. Taleb, “Il Cigno nero”, Ed. Il Saggiatore

http://www.ilsole24ore.com/

 

 

 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox




Palmares