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Crisi della democrazia nelle pagine di un giornalista d’inchiesta

Alla Domus Ars di Napoli c’è l’aria delle grandi occasioni. E si capisce perché. Marco Lillo presenta il suo Di padre in figlio. Le carte inedite sul caso Consip e il familismo renziano, un libro che da solo è un programma. Il baraccone mediatico spara a palle incatenate – è “azzardato”, è “provocatorio” – ma non ci sono dubbi: è uno di quei libri che per definizione si definiscono “coraggiosi”.

Per Vincenzo Iurillo, che fa da moderatore, l’autore è il migliore tra quelli che fanno inchiesta giudiziaria, ma lui, Marco Lillo, ti colpisce soprattutto quando ringrazia gli intervenuti per la loro presenza “rassicurante” e senza atteggiarsi a vittima, ammette che sta attraversando il momento più “delicato” della sia vita professionale. Nessuno l’ha pronunciata, ma ti torna in mente la parola “coraggio”, che farà da padrona per l’intera presentazione. Di coraggio ti parla, infatti, Iurillo e di coraggio è impastata la figura dell’altro ospite, un uomo che non ha bisogno di presentazioni: Luigi De Magistris, che Marco Lillo l’ha conosciuto da magistrato, quando si è messo contro il sistema, ha rischiato e pagato. Da politico, De Magistris non è cambiato molto: è lui il motore di quel “laboratorio Napoli” di cui si può dire tutto, meno che non sia un coraggioso esempio di “governo alternativo delle Istituzioni”.

Ieri come oggi, il sindaco di Napoli naviga controcorrente e vive una “vita pericolosa” per il fatto stesso di esistere: gliel’hanno giurata e la guerra che gli si fa non ammette esclusione di colpi. Non c’è, ma è come ci fosse, un ex collega di De Magistris, il Pubblico Ministero Henry John Woodcock, indagato dalla procura di Roma, dopo aver scoperchiato la pentola della corruzione e – misteri italiani – inquisito per il reato di rivelazione di segreto di ufficio. Una fuga di notizie che non avrebbe avuto alcun interesse a propalare. Woodcock non c’è, ma al suo posto è seduto, autentico convitato di pietra, un invisibile monito: “lascia stare, è pericoloso”.

In un Paese di normale democrazia borghese, in cui il “quarto potere” controlla gli altri tre senza che nessuno si scandalizzi, la storia che Marco Lillo racconta troverebbe l’unanime consenso delle Istituzioni. E’ la storia di Alfredo Romeo, che corrompe un funzionario pubblico; non sarebbe gran che, se Romeo non fosse entrato, però, nelle inchieste che costarono la carriera a De Magistris ed è decisamente inquietante scoprire che l’ex giudice, diventato sindaco, l’abbia trovato sulla sua strada di nuovo, stavolta come gestore del patrimonio immobiliare della città di Napoli, da cui l’ha mandato via. La storia di Lillo è la storia di un “facilitatore” di affari, che cerca di far quattrini per sé e per il suo amico Tiziano Renzi, che si dichiara all’oscuro di tutto, ma irrita il suo Matteo, che non gli crede. In ultima analisi, Lillo racconta l’Italia corrotta che Renzi non ha rottamato.

Negli Usa il giornalista che costrinse Nixon alle dimissioni fece un favore alle Istituzione e divenne una sorta di monumento nazionale; qui da noi il potere non gradisce e i suoi uomini fanno quadrato. Lillo è lapidato, Woodcock, rischia di fare la fine del collega De Magistris, per mano dello stesso magistrato che colpì l’ex PM.

Lillo sta raccontando lo sconcerto del figlio e De Magistris ha appena smesso di invitare a non arrendersi, a denunziare e a lottare, quando la gente capisce che in quella splendida sala non si sta parlando semplicemente di corruzione. Il tema vero del libro di Lillo è in fondo lo stato di salute comatoso della democrazia e il rischio sempre più concreto di una svolta autoritaria che è già nei fatti, come dimostra la vita eterna di un Parlamento che nessuno ha eletto e si è formato grazie a una legge che una sentenza della Consulta ha messo fuorilegge.
A questo punto della serata, se ti guardi attorno, ti accorgi che i presenti hanno capito e glielo leggi negli occhi ciò che pensa: ci sono libri che vanno letti, storie che vanno raccontate e ascoltate, uomini che vanno accompagnati e difesi. Perché di una cosa si può esser certi: viviamo tempi di malafede nei quali occorre stare insieme e tenere alta la guardia, perché o ci si salva assieme o non si salva nessuno.

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