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Costituzione materiale: le origini del dibattito da Santi Romano a Costantino Mortati

Per comprendere le vicende costituzionali degli anni trenta (e non meno quelle successive di epoca repubblicana) è necessario partire dalla crisi di fine ottocento dello stato liberale conclamata con l’emergere della questione sociale e con la sua inadeguatezza ad affrontarla. 
Gregor Jellinek fu fra i primi a tentare di stabilire un nesso fra diritto e decisione politica (che non era certamente negata, ma ammessa solo come precedente logico necessario) per poi ricavarne la fondazione di un diritto positivo, con proprie rigidità anche rispetto alla volontà politica. Sotto la suggestione della nascente sociologia –che cercava di applicare alle comunità umane le leggi scoperte dalla biologia- , un gruppo di giuristi prevalentemente francesi (Leon Duguit, Maurice Hariou, Raymond Carrè de Malberg), ma non solo (anche Vittorio Emanuele Orlando ed il già citato Jellinek) iniziò ad affermare l’idea, inizialmente poco precisa, di una “costituzione materiale”, come apparato necessario all’attuazione di quella formale ed in rapporto di reciproco condizionamento con essa. Questo indirizzo di incipiente sociologia giuridica si scontrò immediatamente con l’egemone scuola positivista, che vedeva nella norma l’unico referente giuridico.
Santi Romano, già allievo di Vittorio Emanuele Orlando”, nel 1916, pubblicò “L’ordinamento giuridico”1 che costituì la più organica sistematizzazione teorica dell’indirizzo antipositivista. Romano partiva dall’affermazione per la quale diritto non è solo l’insieme delle regole, ma include un antestante, di cui le regole sono solo l’espressione e questo antestante sono i rapporti sociali: ubi societas ivi jus. La società è comunque capace di autoregolarsi, anche senza produrre norme esplicite che, peraltro, prima di essere scritte, sono state consuetudinarie. Esse sono il prodotto della cultura che tiene insieme l’aggregato sociale. Romano a differenza di Jellinek, dal quale, pure era influenzato) non identifica con la sola decisione politica l’antestante che considera interno al diritto come suo momento fondativo. D’altro canto, la norma è sempre in ritardo sul fatto ed ha costantemente bisogno di essere “interpretata evolutivamente”2, dunque la norma è parte di un processo che nasce prima della sua elaborazione e finisce con l’interpretazione giurisprudenziale. È palese, in questo, tanto la radice del diritto romano che, come si sa, era essenzialmente giurisprudenziale piuttosto che normativo, quanto la contaminazione con la nascente sociologia giuridica.
Per Romano, il diritto è una “secrezione spontanea” della società e si afferma in primo luogo come consuetudine, quindi come decisione, poi come norma positiva, infine come sua interpretazione giurisprudenziale e il tutto costituisce l’ordinamento giuridico.
Ma una volta affermata l’esistenza di un ordinamento giuridico come realtà di fatto, nulla impediva che potessero esistere e convivere più ordinamenti giuridici in rapporto di reciproca indifferenza o di integrazione reciproca o, ancora di reciproco contrasto. E’ abbastanza noto l’esempio che fa della Mafia che, nella sua opposizione all’ordinamento giuridico statale, tuttavia costituisce un suo ordinamento interno. Ma ovviamente, la parte più ampia del testo è dedicata all’esperienza storica della coesistenza fra ordinamento statale ed ordinamento ecclesiale. Quel pluralismo ordinamentale tipico della nostra storia nazionale.
Con Romano nasceva la scuola istituzionalista che ebbe a Roma il suo primo nucleo con Giuseppe Chiarelli, Sergio Panunzio ed i più giovani Costantino Mortati, Vezio Crisafulli, Giuseppe Maranini, che, dopo, saranno fra i più importanti costituzionalisti di epoca repubblicana.
Contro le tesi di Romano si espresse Hans Kelsen dando vita a quello che fu il più grande dibattito giuridico del Novecento, nel quale si inserì anche Carl Schmitt.
Kelsen sostenne che occorresse separare con nettezza il diritto tanto dalla natura quanto dalla politica e dalla morale, poiché il diritto ha una funzione qualificante in sé e, pertanto la dottrina pura del diritto non può che essere teoria del diritto positivo e generale, basato sulla Grundnorm (norma fondamentale) posta al vertice delle fonti ed alla quale tutte le altre norme debbono essere subordinate. A queste tesi Kelsen dette compiuto svolgimento nel 1934 con la “Dottrina pura del diritto3 (poi rielaborata nel 1960; ), ma, parte di esse era stata anticipata da una raccolta di saggi del 19214 ed è, quindi, poco successiva al libro di Romano.
In realtà, dietro lo scontro apparentemente tutto scientifico fra l’istituzionalismo di Romano, il normativismo kelseniano e il decisionismo schmtittiano (sul quale non abbiamo modo di soffermarci come meriterebbe, perché ci porterebbe troppo lontano rispetto all’asse del nostro ragionamento), si celava uno scontro di evidente natura politica. Kelsen era preoccupato di salvare l’impianto individualistico dell’ordinamento liberale e temeva l’organicismo degli indirizzi istituzionalista di Romano e decisionista di Schmitt (peraltro niente affatto coincidenti fra loro) come potenzialmente portatori di ordinamenti autoritari. Ma se questo timore era sicuramente fondato per un maestro della rivoluzione conservatrice come Schmitt, lo era meno per quanto riguarda Santi Romano che, pure, personalmente ebbe forte compromissione con il fascismo (fra l’altro, concesse il suo prestigioso nome, quale membro del comitato scientifico, della rivista “Il diritto razzista”) ma il cui indirizzo di studio era aperto ad esiti molto diversi fra loro (come si dimostrerà in epoca repubblicana) e che, peraltro, trovava alcuni punti di convergenza persino con le teorie giuridiche di giuristi sovietici come Petr Stucka ed Eugenij Pasukanis5.
Tuttavia, è innegabile che la teoria del pluralismo ordinamentale abbia fornito un’ ottima linea di difesa al regime fascista che poteva presentare il Partito ed i suoi organi come un ordinamento giuridico in sé che si integrava con quello dello Stato.
Le diverse riforme fasciste, di fatto ebbero l’effetto di svuotare lo Statuto di gran parte della sua efficacia, pur senza mai toccarne la lettera. Già le norme sul Gran Consiglio, contenenti il ben noto passo sulla successione e sulle prerogative regie, si muovevano in una dimensione che scavalcava lo Statuto: se ci fossero potute essere nuove norme in materia, esse non avrebbero potuto essere che in ambito statutario che, per il carattere ottriato della carta, non potevano che spettare al Sovrano. Dunque, una eventuale modifica decisa dal Re avrebbe dovuto essere sottoposta al parere preventivo del Gran Consiglio: una norma palesemente lesiva delle prerogative regie e peggio ancora sarebbe stato se l’ipotesi di modifica fosse partita dalla Camera (istituzionalmente controllata dal Pnf) e poi rafforzata dal “parere” del Gran Consiglio.
Le testimonianze sono discordi circa l’atteggiamento personale di Vittorio Emanuele III in quella occasione, ma sono concordi nel sostenere che ci fu un certo scandalo negli ambienti di Corte. In ogni caso, la finzione giuridica del carattere “consultivo” salvò capra e cavoli ed una successiva dichiarazione del Gran Consiglio che stabiliva che, con certezza, l’erede al trono era solo Umberto, principe di Piemonte, valse a far rientrare la cosa.
D’altro canto, la porta allo svuotamento dello Statuto era stata aperta già con le “leggi fascistissime”, che avevano vanificato le poche garanzie riservate ai cittadini, e con la l. 25 novembre 1926 n 2008, istitutiva del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che agiva secondo le norme del codice penale militare di tempo di guerra, e che era sostanzialmente affidato alla Milizia Volontaria per la difesa dello Stato.
L’approvazione della legge sul Gran Consiglio, peraltro, accese un dibattito sulla natura giuridica del Pnf. Santi Romano, teorizzò che il Pnf avesse rilievo costituzionale in quanto “ausiliario dello Stato” sia nel senso politico che giuridico, “intimamente collegato con lo Stato o a questo sottoposto, ma distinto da esso”6. Ancor più spericolato fu il contributo di Pietro Chimienti, per il quale il partito era “un’istituzione costituzionale dello Stato perché essenziale alla costituzione giuridica dello Stato, pur senza avere la qualifica di organo costituzionale perché non ha attribuzioni di Stato>> dimenticando, però, già nel 1926 era stato istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, affidato alla Mvsn che aveva attribuzioni di ordine statale ed era una articolazione del partito. Carlo Costamagna identificava il Pnf come soggetto di natura pubblica per la sua finalità di servizio allo Stato in forma di milizia civile.
Più prudentemente, Giovanni Salemi sostenne la natura di soggetto di diritto pubblico del Pnf, ma tenendolo distinto dallo Stato e Arturo Carlo Jemolo (che, a differenza del suo maestro Francesco Ruffini, prestò giuramento di fedeltà al regime fascista), ritenne che il Pnf avesse funzione solo politica 7
Altri interventi sostanzialmente consentanei alla legge vennero da Oreste Ranelletti, Gino Dallari, Paolo Biscaretti di Ruffia, Costantino Mortati; e dunque, possiamo dire che i giuristi, non solo quelli di indirizzo istituzionalista, ma anche altri indirizzo più “classico”, furono abbastanza allineati al regime.
Il conflitto, per quanto coperto, ci fu, invece nel 1938 con la legge che promuoveva il Presidente del Consiglio al rango di Maresciallo d’Italia e capo delle forze armate in caso di guerra. Le vivaci rimostranze del Re ottennero una modifica molto pasticciata per la quale lo stesso grado era riconosciuto al Re che, in questo modo, si trovava sullo stesso piano del suo Presidente del Consiglio, una situazione sicuramente contraria a quanto stabilito senza ombra di dubbio dall’art 5 dello Statuto.
Questa volta il Re sollecitò un parere di legittimità costituzionale della norma al Presidente del Senato, Santi Romano che, in due giorni, rispose sostenendone la piena legittimità. Secca la reazione del Re:

<< I professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere, ma io continuo ad essere della mia opinione. Del resto non ho nascosto questo mio stato d’animo ai due presidenti delle Camere, perché lo rendessero noto ai promotori di questo smacco alla Corona che dovrà essere l’ultimo.>>8

Pertanto la torsione dello Statuto era giunta molto vicina al punto di rottura e il Re lo faceva presente. Certamente avrebbe potuto non firmare (si giustificò con il desiderio di non produrre una crisi in un momento internazionale particolarmente delicato), ma questo avrebbe portato con ogni probabilità ad un braccio di ferro con il regime ed il Re non poteva essere affatto sicuro che l’eventuale crisi si sarebbe risolta in suo favore, anche se, presumibilmente, avrebbe potuto contare sulla lealtà dei carabinieri e, probabilmente dell’esercito. Ma il 1938 non era ancora il 1943.
Di fatto, però, il problema costituzionale si poneva, l’alibi della “flessibilità” dello Statuto non reggeva più molto e la dottrina fu sollecitata a studiare il problema, fornendo la base per le successive decisioni. Decisivo, in questo senso fu il lavoro di Costantino Mortati “La Costituzione in senso materiale”, importante, come vedremo, anche ai fini del successivo sviluppo costituzionale in epoca repubblicana.


In origine, come ricorda lo stesso autore, il testo avrebbe dovuto comparire in una raccolta di scritti in onore di Santi Romano, ma non essendo stato finito in tempo, compariva qualche tempo dopo molto ampliato ed in veste di libro, ma sempre come omaggio al suo maestro.
Mortati era stato fortemente influenzato dalle teorie elitiste di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels che sostenevano l’ineguaglianza degli uomini da cui derivava che la funzione di governo fosse destinata a pochi mentre la grande massa dei governati dovesse essere necessariamente molto più numerosa. Conseguentemente, e a differenza del suo maestro Romano, Mortati non riteneva che l’ordinamento giuridico di una società potesse emergere spontaneamente, ma in conseguenza di un preciso indirizzo politico razionalmente e coerentemente elaborato9. Egli aveva una visione non armonica ma conflittuale della società e, pertanto, riteneva che il progetto di un ordinamento giuridico non potesse essere che opera di parte, di quella parte meglio organizzata e più capace di imporsi agli altri. E, infatti, Mortati, convinto assertore delle teorie di Mosca e Pareto, riteneva che solo ad una èlite spettasse il compito di determinare l’indirizzo politico che avrebbe creato l’ordinamento giuridico e che questa èlite dovesse essere a capo di un partito politico, strumento necessario per la sua affermazione.
Come nota Dogliani10, se Mortati si fosse fermato qui, sarebbe stato un decisionista come Schimitt, al contrario egli criticava il decisionismo per non sapere distinguere fra l’indirizzo politico generale e la politica contingente, in questo modo, a suo avviso, cadendo nell’irrazionalismo e vanificando la stessa nozione di diritto costituzionale. Per evitare che politica, diritto e costituzione si fondessero in un unico magma indistinto, dove la politica contingente avrebbe riassorbito il resto, il giurista italiano elaborava un concetto di costituzione materiale che “imponeva uno scarto ed il recupero dei tratti trascendenti della costituzione rispetto alla mera volontà politica”11. La dottrina positivistica aveva accettato di buon grado una lettura di totale flessibilità dello Statuto (salvo che per la natura monarchica dell’ordinamento, unico dato non mutabile) e con ciò stesso si era privata della possibilità di darsi una dottrina della costituzione come atto normativo vincolante nei confronti degli stessi attori politici che l’avevano prodotta, A tutto questo, Mortati contrappose la sua teoria di costituzione in senso materiale fondata su un indirizzo politico generale distinto dalla politica contingente e vincolante per esso. La costituzione per Mortati è il progetto di società e di ordinamento che l’èlite vincente si dà. Ed è questo che dà luogo ad una costituzione formale come servente rispetto a quella materiale:

<< La funzione strumentale della costituzione formale rispetto alla costituzione materiale può assumere in determinate circostanze storiche modulazioni peculiari.
Una costituzione scritta può svolgere, per esempio, funzioni garantiste e certificative di patti politici tra forze concorrenti: in questo caso si accentua la sua forza oggettivizzante di limite e di vincolo, alla stessa classe governante>>12

E questo afferma il carattere relativamente rigido della Costituzione, dall’altro ne decreta la validità sinché regge la Costituzione materiale che la sorregge. Per quanto attiene al rapporto fra riforme costituzionali introdotte dal fascismo e Statuto, c’è un passo delle conclusioni che, pur nella sua astrazione, è illuminante:

<<.. Ma soprattutto nei riguardi della posizione giuridica da attribuire al Partito nello Stato è necessario far riferimento alla correlazione essenziale fra il fine politico e la forma dello Stato. Se è vero che, nell’esame di questa posizione, non può prescindersi dalla considerazione delle particolarità della disciplina giuridica stabilita dai singoli ordinamenti positivi … è vero altresì che l’identità propria della funzione propria del partito nello Stato moderno agevola l’interpretazione dei testi positivi e può portare a dimostrare il carattere solo apparente delle divergenze fra ordinamenti diversi , desunte dall’esame comparativo delle norme che lo disciplinano>>13

Ovvero: lo Statuto va interpretato alla luce della presenza del Partito vincente e del suo programma politico, pertanto esso è riassorbito in un contesto costituzionale che include quelle stesse riforme a partire da quella relativa alla costituzionalizzazione del partito stesso e del suo Gran Consiglio. In questo modo lo Statuto restava vigente ma “incapsulato” all’interno dell’ordinamento fascista.

Aldo Giannuli

1) Santi ROMANO “L’ordinamento giuridico” il volume ebbe una sua edizione successiva, rivista dall’autore nel 1946; noi lo citiamo in questa seconda edizione del 1946 a sua volta ripubblicata da Sansoni, Firenze 1977

2) Identica formula, non a caso, verrà usata negli anni settanta, da Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra dei magistrati italiani

3) Hans KELSEN “La dottrina pura del diritto” Einaudi, Torino 1960

4) Hans KELSEN “Il primato del Parlamento” Giuffrè, Milano 1982

5) Petr STUCKA, Eugenij PASUKANIS Andreij VYSINSKIJ “Teorie sovietiche del diritto” Giuffrè, Milano 1964

6) cit. in Claudio SCHWARZENBERG “Diritto e giustizia nell’Italia Fascista” Mursia Milano 1977 p.71.

7) Ibidem p. 72

8) Renzo DE FELICE “Mussolini il duce” Einaudi, Torino 1981, pp.33-4

9) Sulla teoria dell’indirizzo politico in Mortati vedi Mario DOGLIANI “Costituzione Materiale ed indirizzo politico” in Alessandro CATELANI e Silvano LABRIOLA (A cura di) “La costituzione materiale” Giuffrè, Milano 2001.

10) Op cit. p. 181

11) Ivi

12) Giuseppe VOLPE “Il costituzionalismo del Novecento” Laterza, Roma Bari 2000, p. 123

13) Costantino MORTATI “La Costituzione in senso materiale” Giuffrè, Milano 1940, p. 233

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