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Costa Concordia, la memoria delle balene

I grandi cetacei hanno buona memoria e la Costa Concordia somiglia ad una balena ferita, morente, che canta l’ultima nenia prima di inabissarsi.

Se ne sta lì, davanti all’isola del Giglio, mezza dentro e mezza fuori dall’acqua. Piegata su un fianco. Ruotata di lato lungo un asse che doveva rimanere verticale. Un po’ sgraziata, già squarciata. Un millimetro per volta procede in direzione dell’abisso. E’ come l’annuncio di una sparizione, ma rimandata di giorno in giorno perché più duratura sia la memoria di quanto è accaduto.

Fa pensare a un gigante buono, a un gigantesco involucro che ha contenuto le speranze segrete dei viaggiatori, le parole non dette e i sentimenti tenuti stretti di chi si era imbarcato alla volta del tempo felice. La sera di venerdì 13 gennaio, nel ventre, sui ponti e perfino nella plancia di comando di questo enorme cetaceo più di quattromila sogni hanno vibrato di vita colorata. Più di ottomila occhi, da dietro gli oblò e dalle terrazze sovrastate dal cielo stellato, si sono spalancati davanti alle luci allineate sul porto dell’isola del Giglio.

Oggi guardiamo la balena e ci sembra di sentirlo quell’unico, lungo, interminabile sospiro incantato. Tutti quegli Ohhh… di meraviglia che si rimandano dalla prua alla poppa delle navi durante una crociera. Perché la bellezza della vita certe volte toglie il respiro. E sembra farlo apposta. Sembra farlo proprio quando sta per toglierci l’ultimo respiro. Come se il destino giocasse a farci lo sgambetto sul più bello, quando proprio non ci pensiamo a stare all’erta e ci abbandoniamo con fiducia alla convinzione di sentirci fortunati.

Poi, in un istante – giusto il tempo di inchinarsi e dire “ciao” – lo scontro con lo scoglio e lo squarcio sulla fiancata. La nave sbanda.

Ai languidi accordi del piano bar succede lo stridore delle sirene. Si spengono le stelle, spariscono i lampioni che punteggiano la promenade e i lampadari incandescenti nella sala da ballo lasciano il posto alle lampeggianti luci d’emergenza che pulsano all’impazzata.

Tutto muta, tutto si rovescia, come gli arredi, i bagagli, gli effetti personali e le provviste che rotolano gli uni sopra gli altri e si riversano nell’acqua in una indistinta e indifferente pattumiera.

Un generale rovesciamento di senso sconvolge quello che sembrava l’ordine naturale delle cose: i pavimenti si trasformano in muri e le pareti fanno da solai per gli speleologi che erano abituati a calarsi nel ventre della terra e che ora si immergono in una gigantesca urna ricolma d’acqua nera.

Un mese dopo la nave è ancora lì, mezza dentro e mezza fuori dall’acqua. Somiglia sempre a una balena offesa che non vuole arrendersi all’oblio, al rapido passaggio delle cose e delle memorie. Come una madre premurosa custodisce l’ultimo pensiero di chi non ce l’ha fatta a mettersi in salvo. Protegge le ultime immagini viste dai morti, i loro ultimi respiri, l’addio alla vita e la definitiva dichiarazione d’amore per i propri cari. Culla tutto questo nel silenzio acquatico della notte eterna. Quando soffia forte il vento e la mareggiata si abbatte contro le fiancate, le lamiere stridono e le fenditure gemono. Così la balena intona il suo inno alle creature di questo mondo che non ci sono più. 

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