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Cosa sta succedendo in Turchia e cosa c’entra con noi (Seconda Parte)

 

 

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3. Le contraddizioni dello sviluppo, le classi sociali, le mobilitazioni degli ultimi anni

Come si vede, nonostante la sostenuta crescita del PIL dal 2002 al 2013 (in media il 5%, nonostante la crisi mondiale), per Erdoğan non sono tutte rose e fiori. Basta gettare uno sguardo ad alcuni dati dell’OCSE per capire quante contraddizioni si siano accumulate, non solo dal punto di vista macroeconomico (ricordate il problema accennato prima della bilancia dei pagamenti e della dipendenza della Turchia dai capitali esteri?), ma soprattutto dal punto di vista sociale. È ancora l’OCSE, fra i templi del liberismo mondiale, a inserire la Turchia tra i primi cinque paesi al mondo con il più profondo gap tra il 10% della popolazione più ricca e il 10% della popolazione più povera (assieme a Cile, Messico, Stati Uniti e Israele, ovvero i paesi all’avanguardia nelle politiche neoliberiste)14.

In altri termini, contro il mantra ripetuto sia dai liberisti che dai socialdemocratici anche italiani, il cui postulato intoccabile è che della crescita economica finiscono prima o poi per beneficiare tutti, e quindi bisogna “sviluppare l’economia e sostenere le imprese”, interi strati della popolazione sono rimasti tagliati fuori dallo sviluppo, anzi, hanno visto persino la loro condizione peggiorare.

Come sottolinea Sevket Pamuk, storico dell’economia di fama mondiale e Presidente del Dipartimento di studi sulla Turchia della London School of Economics, “la condizione di operai, lavoratori non qualificati e dipendenti pubblici in Turchia non è migliorata di molto. Inoltre a un aumento seppur ridotto dei loro stipendi, fa da contraltare l’aumento del costo della vita nelle città e un'inflazione all'8,9% che rende impercettibile questo cambio”15. Pamuk si mantiene prudente, ma la realtà è anche peggiore delle sue supposizioni. Non solo perché i salari hanno perso potere d’acquisto, non solo perché si lavora di più e in condizioni peggiori, con una copertura sanitaria e pensionistica scarsissima. Ma anche perché, nonostante la ripresa economica, la disoccupazione resta comunque all'8,8%, mentre persiste una consistente fascia di NEET16, per non parlare della situazione ancora arretrata delle campagne, rimaste estranee all'accelerazione dell’economia.

Ma chi ha beneficiato allora delle politiche di Erdoğan? Qual è il profilo delle classi in Turchia? Su quali blocchi sociali i vari raggruppamenti politici costruiscono il loro potere? Se non capiamo questo, non possiamo capire nulla delle rivolte che si stanno sviluppando e dell’esito che possono prendere.

Chi sia stato il grande vincitore della lotta di classe nell’ultimo decennio è evidente. Ce lo dice ancora una volta Pamuk: “Il tenore di vita e il livello di ricchezza delle famiglie dell’alta borghesia è sicuramente aumentato. Allo stesso tempo è nata una nuova piccola borghesia, formata da coloro che sono emigrati dalle campagne dell’Anatolia verso le grandi metropoli turche come Istanbul, Ankara e Smirne per cercare un futuro migliore. Divenuti principalmente commercianti e piccoli imprenditori si sono arricchiti grazie alle politiche del AKP di Erdoğan di cui sono i più forti sostenitori”. Proviamo a specificare meglio.

Erdoğan può contare su un blocco sociale di tutto rispetto. Ha innanzitutto il sostegno di alcune famiglie della grande borghesia, di grandi costruttori e delle “tigri anatoliche”, direttamente legate a lui da vincoli di amicizia e parentela. Ma non solo: le sue politiche economiche hanno creato quasi dal nulla una nuova borghesia islamica, fondata sulla piccola e media impresa (chiamata KOBI, quella in cui si registrano più morti sul lavoro, meno presenza dei sindacati, più sfruttamento etc). Queste reti economiche, spesso tirate su da abitanti delle periferie, prosperano sul sommerso, che continua a rappresentare il 50% dell'economia turca, e sono capillarmente presenti sui territori. Ma Erdoğan riesce anche a penetrare negli strati popolari e nelle campagne, grazie al richiamo all'islamismo e al suo materiale supporto a scuole, centri di assistenza e di volontariato a sfondo religioso, che agiscono come raccoglitori di voti e pilastri del consenso per l’AKP.

Ma Erdoğan non riesce a coprire tutto il fronte borghese. Che è rappresentato anche dalle grandi famiglie della borghesia laica, i “vecchi padroni del vapore”, come li chiama il Sole 24 Ore17, che in quest’ultimo decennio hanno perso progressivamente quote di potere. Il ruolo di questa frazione borghese non è affatto da trascurare: non solo perché gode di posizioni acquisite negli ultimi cento anni, non solo perché ha forti legami internazionali, ma anche perché continua ad essere interna all'esercito e a rappresentare, attraverso lo strumento politico del CHP, la maggiore opposizione del paese. Inoltre gode anche di un largo sostegno popolare legittimato dal richiamo ai valori della secolarizzazione e alla figura di Ataturk. Punta invece tutto sul nazionalismo, sul tradizionalismo di matrice laica e sull’opposizione alle minoranze curde e armene, il terzo partito turco, l’MHP.

Ma, se questi sono i blocchi sociali egemonizzati dalla borghesia, qual è la situazione materiale e la percezione di sé del nostro soggetto di riferimento, cioè il proletariato? Con chi sta, dove sta, che fa e come partecipa alla vita politica turca?

Iniziamo con alcune constatazioni, banali. In questi ultimi dieci anni c’è stata una crescita del proletariato in termini assoluti. Lo sviluppo turco si è infatti contraddistinto per l’espansione della manifattura, dell’industria e del settore “arretrato” dei servizi. Questo ha portato ad un aumento dei lavoratori dipendenti, e in particolare degli operai e degli addetti al turismo: è stata cioè messa più gente a lavoro, molti sono stati strappati dalle campagne, dalle forme di sussistenza e di riproduzione quasi individuale, e sono pienamente entrati nel rapporto di sfruttamento capitalistico.

Eppure, a fronte di questa crescita numerica, almeno in prima battuta il ruolo e l’azione di questo soggetto sociale non è stato particolarmente visibile. Uno dei motivi è presto spiegato: la difficoltà di organizzarsi, sia sui posti di lavoro che a livello politico generale. Partiamo da quest’ultimo livello, per certi aspetti meno complesso: i partiti di sinistra e in particolare i comunisti, gli studenti, gli intellettuali dissidenti in Turchia sono stati costantemente repressi. Negli anni di Erdoğan questa repressione si è fatta particolarmente spietata: si pensi al caso dei Grup Yorum, gruppo rock folk turco della sinistra radicale le cui cantanti nel settembre del 2012 furono arrestate e torturate, o ancora di più alla gigantesca operazione contro la sinistra di questi ultimi mesi, che ha portato all’arresto di circa 8mila persone tra cui numerosi sindaci, docenti universitari, giornalisti, sindacalisti, militanti di base… 

Se consideriamo poi che la soglia di sbarramento per ottenere una rappresentanza politica in Parlamento è fissata al 10%, si capisce come la sinistra di classe non riesca a “farsi vedere” su una dimensione nazionale, pur essendo affollata di gruppi, di micropartiti, di organizzazioni anche molto combattive e capaci. 

Ma perché i lavoratori, pur essendo tanti e sperimentando forme disumane di sfruttamento, non sono riusciti a irrompere significativamente nella vita sociale e politica turca e a contrastare questa spietata lotta di classe portata avanti da Erdoğan?

Innanzitutto c’è un problema materiale: una parte cospicua della forza lavoro è legata a dimensioni di piccola e media impresa, dove il controllo padronale è più forte, e la concentrazione operaia è significativa solo in alcuni distretti. Ma basta gettare un colpo d’occhio per vedere come funzionano i sindacati in Turchia, di quali diritti beneficiano i lavoratori, come si convoca uno sciopero, per capire che la situazione è effettivamente difficilissima. Facciamo qualche esempio18.

Iscriversi a un sindacato è una vera impresa. C’è tutta una complessa procedura burocratica che prevede l’autentificazione della richiesta presso un notaio di ben cinque copie, che vengono poi inoltrate a diversi uffici, anche governativi. Inoltre il sindacato non è presente ovunque. Chiamare uno sciopero è poi davvero arduo: c’è un lungo iter di avviso alla controparte, dopodiché in qualsiasi momento le autorità possono sospendere la precettazione. Peraltro, prima del Referendum Costituzionale del 2010, era possibile scioperare solo nel settore privato, e comunque non nelle industrie strategiche come quelle di produzione di carbone, le centrali idroelettriche, elettriche, a gas e a carbone, nel settore bancario e dei notai. Dopo una lunga lotta ora è possibile scioperare anche nel pubblico impiego, ma con norme molto rigide. Ancora, la costituzione turca vieta, almeno nel settore privato, gli scioperi politici e di solidarietà – ovvero quelli che più costruiscono legami di classe ed elementi di coscienza fra lavoratori.

Ciononostante sarebbe falso affermare che in Turchia sui posti di lavoro vige la pace sociale. Al contrario. Quello che si riesce a sapere (infatti, data la difficoltà di organizzarsi stabilmente spesso le tensioni scoppiano in maniera autorganizzata e locale, dunque non vengono registrate), dimostra che è proprio nelle proteste degli operai, dei lavoratori dipendenti e in generale dei ceti popolari, che un filo rosso fra le lotte non si è mai spezzato. È in questo “fondo” che sono state attinte le risorse per mobilitarsi, tenere le piazze, comunicare, estendere l'opposizione, e da questo dipende sia il carattere marcatamente sociale che hanno subito assunto, nelle forme e nei tempi, le proteste, sia la loro generalizzazione anche fuori Istanbul, l’estensione quasi simultanea in tutte le città e gli insediamenti industriali (mentre non a caso la campagna è restata in massima parte estranea al “contagio”, come di vede dalla cartina qui sotto19). A dimostrazione che le rivolte non nascono dal nulla ma, per quanto possano apparire agli osservatori come un Evento, sono in realtà il prodotto di un’accumulazione di forze, di una sedimentazione continua.

Proviamo quindi a ricostruire questo filo rosso. Se in un primo momento la crisi economica del paese all’inizio degli anni Duemila pesa sulla possibilità di avviare mobilitazioni, la stessa crescita economica genera a un certo punto anche elementi di consapevolezza nei lavoratori. Nel 2004 arrivano i primi scioperi nel settore della produzione dei pneumatici, che sono così forti e inquietanti da portare il Governo a varare apposta una legge per vietare questo tipo di mobilitazioni. Gli scioperi aumentano costantemente fino al 200720, anno in cui c'è un fortissima mobilitazione contro la privatizzazione della Turk Telecom. Parliamo di circa 26.000 lavoratori coinvolti, pochi se pensiamo in termini astratti, ma tantissimi se pensiamo che sono 20 volte di più che pochi anni prima, e se riflettiamo sul dato che la sindacalizzazione in Turchia riguarda nemmeno tre milioni di lavoratori su 23...

Nel 2007 saranno oltre 1 milione le giornate complessive di lavoro sottratte al padrone. Questi temporanei exploit, che arrivano anche a scontri con le forze dell’ordine e che trovano momenti di aggregazione intorno a un Primo Maggio da sempre vissuto come giornata di lotta, dimostrano che una conflittualità c'è sempre stata, e che i movimenti non si generano dal nulla, ma vivono di continuità magari sotterranee, ma forti.

Il 2008 è caratterizzato da grosse mobilitazioni contro la riforma delle pensioni e la riforma sanitaria, che com’è ovvio toccano in primo luogo proprio i lavoratori. Ma la situazione esplode davvero nell'ottobre del 2009, quando a Istanbul c'è il vertice dell'FMI e della Banca Mondiale. Per giorni in città si succedono scontri anche molto duri, ci sono tanti arresti e feriti. Non a caso il 2009 è anche l’anno di nascita di Resistanbul, una delle sigle che ha caratterizzato anche questi giorni di mobilitazione.

Questo flusso prosegue imperterrito per tutto il 2010, anno in cui scendono in piazza, con relativi scontri, gli operai della TEKEL, avvengono le proteste contro il Referendum Costituzionale del 2010 e la riforma della scuola del 2012, che fra le altre cose lascia senza lavoro ben 300.000 insegnanti che si iniziano a organizzare. Nello stesso tempo il pubblico impiego si mobilita per il rinnovo del contratto: migliaia di lavoratori chiedono addirittura aumenti salariali… Insomma, sembra davvero il caso di soffermarsi su alcuni aspetti di questo nuovo movimento sindacale.

Da questo punto di vista la lunga lotta della TEKEL, una delle aziende di tabacchi e alcolici di vecchia proprietà dello stato “regalata” da Erdoğan alla British American Tobacco, è emblematica. Il caso della TEKEL ha riscosso molta attenzione a livello internazionale21, non solo perché la tenacia dei lavoratori nel resistere per mesi ai processi di flessibilizzazione e al taglio dei salari ha fatto sì che si creassero le condizioni per una delle più grandi manifestazioni recenti in Turchia (ben 100.000 persone nelle strade di tutto il paese), ma perché la mobilitazione è stata fortemente spinta e organizzata dai lavoratori stessi, anche contro le burocrazie dei sindacati di sinistra, ovvero DISK e KESK. La stessa forma che si è data la lotta, quella della “Comune di Sakarya”, ovvero di un insieme di tende organizzate in un quartiere nel cuore di Ankara, è un momento di snodo per la storia dei movimenti turchi contemporanei.

Come scrive Sungur Savran, giornalista radicale di Istanbul, nel descrivere l’impatto di quella vicenda sui tanti visitatori, militanti socialisti e comunisti che si recavano lì per dare una mano, lavoratori che andavano a fraternizzare, “l’accampamento di Sakarya diventò presto una Mecca per tutti i movimenti di opposizione e creò un impeto per il risveglio della coscienza di classe in tutti quanti, nei lavoratori TEKEL e nei visitatori”. Come non legare questa vicenda, a cui parteciparono tanti compagni di Istanbul, a quella del Gezi Park? E come non pensare che nella protesta di Ankara, per certi aspetti anche più violenta di quella di Istanbul, non c’entri la memoria di questa lotta? Non si siano anzi mobilitati proprio questi nuclei di lavoratori?

Ma facciamo un altro esempio. Nel settembre 2006 ad Antalya a ribellarsi sono le lavoratrici della SUPRAMED, una fabbrica della multinazionale tedesca Prescription Medical Corp22: per quanto la lotta abbia riguardato numeri trascurabili (parliamo di 83 lavoratrici su 85) ha segnato un momento importante. Innanzitutto perché è stata condotta in prima persona da donne, che hanno avuto il coraggio di resistere per ben 448 giorni di sciopero, in secondo luogo perché alla fine è risultata vincente, riuscendo persino a strappare miglioramenti contrattuali, e in terzo luogo perché è riuscita a introdurre per la prima volta il sindacato nelle famigerate Zone Economiche Speciali aperte da Erdoğan (in questo senso quest’esperienza ha molti punti di contatto con quella dei lavoratori della Chung Electronics in Polonia)23.

Estremamente interessante sembra poi la lotta di un anno fa dei lavoratori della Turkish Airlines24. La compagnia aveva infatti deciso di licenziare ben 305 dipendenti, “colpevoli” di aver cercato di fermare con iniziative e proteste una proposta di legge governativa mirante a vietare gli scioperi nel trasporto aereo. Il 3 giugno 2012 la norma è stata comunque pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale mentre i lavoratori si sono ritrovati disoccupati. Ma anche per il suo forte impatto mediatico e sociale, la vertenza si è trasformata nel simbolo della nuova stagione del sindacalismo turco, tanto che a mediare è arrivato nientemeno che il Ministro del Lavoro di Erdoğan, che pure aveva approvato l’operato della Turkish Airlines.

Le dichiarazioni dei sindacalisti coinvolti sono estremamente interessanti per capire quello che sta succedendo nel paese negli ultimi anni, e ci forniscono la chiave per afferrare anche il senso delle ultime proteste: “La questione è semplice: se la Turchia sta crescendo, vogliamo la nostra parte di questa crescita”, spiega infatti il Presidente della Confederazione dei sindacati del settore pubblico Memur-Sen. “Il governo ha preferito stare dalla parte dei ricchi, cioè con il capitale”, gli ha fatto eco il leader della Confederazione dei sindacati del pubblico impiego KESK.

Insomma, basta consultare qualche rivista specializzata25 o fare una ricerca in rete, per scoprire che in Turchia non c’è mai stata pace sociale. D’altronde non è possibile, in un modo di produzione capitalistico, abolire la conflittualità di classe: prima o poi i problemi sono destinati a venire a galla. Certo, lo sviluppo di queste lotte incontra tante barriere, fra cui la repressione dei padroni e dello stato è solo una, e forse la più trascurabile.

Il proletariato turco sembra infatti risentire anche dell’impatto “classico” dei processi di globalizzazione su un paese periferico, e in particolare della creazione di quella linea di frattura (individuata da alcuni scritti di Robert Cox nel 1981 e di Andreas Bieler nel 2000) fra un lavoro orientato verso la produzione nazionale e un altro orientato verso la produzione internazionale26. Questi legami con capitali di diversa provenienza sembrano generare apparenti differenze di interessi all’interno della stessa classe, e quindi anche due approcci differenti: uno più corporativo, ed è il caso degli impiegati pubblici e degli addetti all’agricoltura, e uno più “solidale” e “internazionalista”, ed è il caso degli operai del tessile e delle automobili. Questo conflitto interno al proletariato consente alla borghesia nel suo complesso un più facile controllo della situazione, perché è un fattore di divisione costante fra i sindacati e persino fra segmenti diversi della forza lavoro, ad esempio fra quella legata all’economia formale e quella legata all’economia informale.
In tutto questo bisogna poi aggiungere che l’AKP approfitta di veri e propri sindacati “gialli”, ovvero filopadronali, per sviluppare meccanismi di partnership e di compensazione fra capitale e lavoro (immaginate a vantaggio di chi!).


D’altra parte è proprio questa compressione sui posti di lavoro che fa sì che le proteste, quando esplodono, siano poi molto accese. E quello che è accaduto a Istanbul nel 2009 in occasione della “visita” dell’FMI, o che sta avvenendo in questi giorni in tutte le città turche, dimostra che si può solo spostare il luogo della conflittualità: se la si disarticola sui posti di lavoro è per poi trovarsela spalmata nella metropoli, concentrata intorno alla difesa di un luogo che l’intelligenza di un movimento individua come centrale.

Per concludere, si vede bene che, in questo contesto di decennale sviluppo, ma di cruda disuguaglianza, problemi come quello della gentrificazione – che non ha tanto a che vedere con gli alberi del Gezi Park, ma riguarda i ben più materiali sfratti di proletari e minoranze dalla zona, oltre alla distruzione di una piazza ad alta valenza simbolica per i movimenti –, per quanto importanti, non ci aiutano a capire la globalità dell’avvenimento, il fatto che sia stato fatto proprio da tutta una fascia di esclusi dal trionfale progresso dell’economia capitalistica.

Insomma, non dobbiamo stupirci del perché tutto questo sia successo, semmai al contrario ci dovremmo chiedere perché non è successo prima… In ogni caso quello che è certo, e che ci dà speranza anche per la situazione italiana, è che quando intorno c’è del materiale infiammabile basta una scintilla perché tutto prenda fuoco.


4. La situazione attuale, le possibili evoluzioni e cosa è lecito sperare

Proviamo ora ad azzardare qualche riflessione sullo stato della mobilitazione turca, cercando di sottrarci alla cronaca che ci bombarda momento per momento e che ci invia segnali contraddittori. Tentiamo cioè di ragionare oltre il Gezi Park, sulle tendenze di medio e lungo periodo, che sono quelle che sono state messe in evidenza finora.

Nel breve periodo, Erdoğan ha ancora molte carte da giocare, e la repressione poliziesca forse non è nemmeno la principale. Innanzitutto il suo partito, per quanto abbia al suo interno una frazione più “dialogante” (in parte perché teme un’eccessiva gestione familistica degli affari, in parte perché vuole strumentalmente ricavarsi spazi di visibilità magari in vista di future operazioni elettorali), resta di gran lunga il più rappresentativo nella società turca. Inoltre, grazie anche alla mediazione dell’apparato islamico, può contare di un certo sostegno popolare, utile quando si tratta di far scendere in campo mazzieri e squadristi da gettare contro i manifestanti, per poi far intervenire in seconda battuta lo stato come garante dell’ordine (è una mossa classica, dall’Italia fascista alla Grecia di Alba Dorata, e che è stata sperimentata già in questi giorni). 
Ma soprattutto Erdoğan è stato per oltre dieci anni il garante degli interessi dell'imperialismo in Turchia, un interlocutore credibile non solo per il capitale europeo o statunitense, ma per tutti. Di fatto è stato il primo leader della turbolenta Turchia contemporanea che abbia stabilmente garantito condizioni di profittabilità, e di questo lui stesso ne è assolutamente consapevole, come ha dimostrato in tutti i suoi ultimi interventi. Difficile che venga “scaricato” dai suoi ricchi sostenitori o dagli investitori stranieri senza che prima si sia trovato un degno successore. Uno che possa fare quello che la borghesia nel suo insieme deve sempre fare: bastonare il proletariato, perché se alza la testa son problemi per tutti, non solo per i padroni turchi.

Questi i punti di forza di Erdoğan. Ma quelli dell’opposizione? Li abbiamo visti: la potenza di queste mobilitazioni è stata data proprio dalla saldatura fra un largo malessere sociale, ora si può capire perché così diffuso, con militanti della sinistra – pochi ma combattivi, formati nel corso delle lotte degli ultimi dieci anni – e con larghe fette di popolazione fedele agli ideali del kemalismo e preoccupata dal rafforzamento dell’islamismo (appunto perché storicamente in Turchia la questione del laicismo è una linea di frattura politica e forte, non solo ideologica, ma materiale).

In questo senso la presenza negli scontri degli ultras del Fenerbahce, del Besikitas e del Galatasaray, per restare alla sola Istanbul, è estremamente emblematica, perché questi ultras si situano proprio su quel crinale del lavoro/non-lavoro di ampie fette di proletariato metropolitano, hanno al loro interno attivisti politici e sindacali, e riescono a portare in piazza una certa consapevolezza tattica nello scontro con le forze dell’ordine. È qualcosa che abbiamo visto anche in Egitto e che, al di là della confusione politica iniziale (si pensi alla tifoseria “anarchica” del Carsi che brandisce bandiere di Ataturk), può in prospettiva essere estremamente produttiva. Anche perché, come l’Egitto, la Turchia è un paese giovane: la fascia più attiva della popolazione, quella fra i 18 e i 40 anni, è composta da ben 20 milioni di persone!

Ovviamente a patto che fallisca l’opzione di “recupero” del movimento da parte degli altri due partiti centrali nella vita turca: il centrosinistra laico del CHP e la destra dell’MHP. Come molti giovani, lavoratori e oppositori di Erdoğan sono scesi in piazza stufi della sua gestione della cosa pubblica, e vogliosi di rivendicare per loro spazi di decisione e parte di quella ricchezza ormai messa in circolo negli ultimi dieci anni, così questi due partiti che dietro hanno capitalisti esclusi dalla gestione di importanti appalti, cavalcano le proteste per cercare di rientrare in posizioni di potere27.

Il CHP per esempio sa che Erdoğan non è ben visto dai capitali europei, perché queste frazioni della borghesia internazionale temono la presenza di ingenti capitali “orientali” così vicino all'Europa, e non sono contente del fatto che il suo Governo abbia favorito nelle ultime privatizzazioni proprio i fondi provenienti dall’Est. D’altronde, se si leggono gli editoriali inglesi e tedeschi che hanno dato la linea a tutta l’Europa, si vede facilmente come le proteste non siano state viste male da certi gruppi del continente28. Il CHP lo sa, e per questo punta a un generale riequilibro dei poteri, constatando che nel suo complesso l'opposizione rappresenta comunque oltre il 40% del Parlamento, e che si potrebbe arrivare presto a nuove elezioni, che nell’immediato ridimensionerebbero il leader islamico. Se le proteste nelle piazze dovessero poi continuare, lo scenario per quest’opposizione sarebbe perfetto: si potrebbe puntare addirittura a una sorta di governo “tecnico” o di “unità nazionale” per superare la crisi e andare a rinegoziare gli interessi delle differenti frazioni borghesi.

Il rischio che la mobilitazione dei settori popolari venga recuperata da soggetti conservatori, che in sostanza propongono il classico “si stava meglio quando si stava peggio” è certamente esistente e non deve affatto sorprenderci: in fondo una protesta così scomposta ed eterogenea è facilmente manovrabile. In un contesto in cui le organizzazioni e le rappresentanze di classe sono così frammentate non può darsi a vedere alcun Proletariato in marcia verso la Rivoluzione… Anzi, com’è “ovvio” che sia, i lavoratori dipendenti, gli operai, gli abitanti dei distretti produttivi, alcuni gruppi tagliati fuori dallo sviluppo sono sì antagonisti al Governo, ma perché sperano innanzitutto che un qualsiasi cambiamento politico migliori anche le loro condizioni, li faccia partecipare della crescita economica, gli conceda una sorta di “ascensore sociale” che in questo momento per questi gruppi sembra non funzionare.

Il resto del “nostro” blocco sociale è poi formato dalle minoranze armene e curde che in questo momento hanno un’effettiva difficoltà a intervenire. Soprattutto i curdi sono impegnati con la complessa fase di transizione e di “soluzione democratica” di un conflitto secolare e, per quanto abbiano pure partecipato in massa alle proteste e persino lanciato qualche piccolo attacco in Kurdistan, sanno che se si gettassero nel conflitto con il loro peso militare non farebbero che rinforzare le tendenze nazionaliste e persino bloccare l’evolversi della protesta. D’altra parte i curdi, che in decenni di lotta hanno accumulato una certa esperienza dei “tempi” della rivolta e delle loro sconfitte, sanno che questo tipo di proteste possono dileguarsi anche velocemente, e pondereranno bene prima di intervenire negli “affari interni turchi” mettendo a rischio il loro percorso indipendentista.  

Ma se l’analisi condotta nelle precedenti pagine è corretta, è difficile che Erdoğan se la possa cavare nel medio periodo solo con il manganello e le blande aperture di facciata. Le contraddizioni della società turca non saranno certo sciolte con qualche rimpasto di governo, e la situazione resta precaria, anche senza attendere che un calo degli investimenti esteri metta di nuovo in crisi l’economia, o che faccia risalire il debito pubblico e la disoccupazione. È proprio la situazione sociale a essere già ora tanto grave da meritare un altri tipo di approccio: e in questo senso è più probabile che se il Governo vuole vincere le prossime consultazioni, dovrà dividere il fronte della protesta concedendo qualcosa in termini salariali, alleviando qualche situazione di particolare disagio, mettendo in cantiere qualche misura popolare.

Qui ci fermiamo con le speculazioni, perché per poter prevedere cosa succederà, bisognerebbe quantomeno essere lì: sapere cosa si sta muovendo in ogni situazione lavorativa, se in questi giorni di protesta si sono create relazioni fra lavoratori, strutture informali di relazioni sindacali (come accaduto in Egitto proprio durante la sollevazione). Tutto questo non siamo riusciti a saperlo, forse nel marasma di questi giorni è anche difficile saperlo. E ovviamente speriamo che questo diventi un terreno di ragionamento fra compagni, che su questo punto si possano raccogliere materiali e condividere dibattito.

Di certo però sappiamo quello che possiamo sperare per i compagni turchi. Che riescano a prendere il potere in questo contesto è davvero impossibile, dato l’assetto della controparte e il grado di frammentazione delle forze di classe (in questo senso basta vedere l’evoluzione della situazione nella Tunisia o nell’Egitto post-rivoluzionari, in cui l’elemento organizzativo è stato centrale). Ma possiamo sperare che spingano al massimo la mobilitazione per trovare quel punto di rottura politico che ne accrediti il ruolo presso larghi strati della popolazione. E possiamo anche sperare che questa rivolta sia il momento germinale di nuove forme di organizzazione di classe, o anche solo del rafforzamento (cioè aggregazione) e del coordinamento (cioè maggiore unità) di quelle già esistenti. Solo a queste condizioni ci potranno essere evoluzioni importanti nel medio periodo. 

 

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Note


14. Cfr. il report dell’OCSE, Growing risk of inequality and poverty as crisis hits the poor hardest, del

15 maggio 2013 http://www.oecd.org/social/growing-...

15. Cfr. ancora A. Tetta, Economia turca: quando la tigre abbaia, cit.

16. Giovani che non sono né in un percorso di formazione né in un percorso lavorativo: secondo l’OCSE nel 2010 il 43,7% della popolazione fra i 20 e i 24 anni non lavorava né studiava, anche se questi dati sono attendibili solo in parte, vista la cospicua presenza di economia sommersa.

17. Cfr. Vittorio Da Rold, La Turchia divisa anche sull’FMI, 18 luglio 2007.

18. Si veda l’articolo della European Trade Union Confederation (in italiano CES), I sindacati turchi e le relazioni industriali, aprile 2010.

19. Elaborata dall’agenzia di Global Intelligence Stratfor, 2 giugno 2013 .

20. Si vedano ancora i dati raccolti in I sindacati turchi e le relazioni industriali, cit.

21. Qui maggiori info sulla vertenza: S. Savran, The Tekel Strike in Turkey. The “Sakarya Commune” Wins the First Round!, su Global Research, 16 marzo 2010.

22. T., Linking Theories of Framing and Collective Identity Formation: Women’s Organizations’ Involvement with the Supramed Strike, su European Journal of Turkish Studies, novembre 2010.

23. Cfr. C. Spinella, Divieto di sciopero in Turchia. Una legge impedisce le proteste nel settore aeroportuale, 29 Giugno 2012.

24. Non lavoreremo per un piatto di lenticchie! Lotta e organizzazione nelle Zone Economiche Speciali (Polonia), su clashcityworkers.org, 24 Maggio 2013.

25. A questo proposito si veda l’ottimo numero del novembre 2010 dell'“European Journal of Turkish Studies” in cui si parla del movimento dei lavoratori turco, delle politiche neoliberiste di Erdoğan, del rapporto con l'Unione Europea.

26. Così almeno sembrano testimoniare le inchieste, interviste ed analisi empiriche raccolte da Elif Uzgören, ricercatore turco del Dipartimento di relazioni internazionali della Dokuz Eylul University. Cfr. Il suo articolo del 5 ottobre 2012, Labour Struggle in a Peripheral Context: Debating Labour and Alternatives to Globalisation in Turkey, su andreasbieler.blogspot.it

27. In questo senso i discorsi di Erdoğan sul nesso proteste/economica/destabilizzazione dall’esterno, pur rappresentando una becera speculazione politica volta a presentare i manifestanti come “estremisti nemici della patria”, non sono completamente campati in aria. Peraltro Erdoğan riconosce esplicitamente che il vero punto che pongono le proteste non è certo la difesa degli alberi, ma il modello economico turco...

28. D’altra parte non possiamo essere certi che i forti cali della Borsa di Istanbul della settimana scorsa, corredati da sospensioni e rinvii per motivi tecnici, indichino che i capitali internazionali abbiano deciso di scaricare Erdoğan. Questo perché gli investitori lavorano sempre prevedendo le cose, sganciandosi da prima, e non si “scoprono” se non sono innanzitutto certi che quello spazio è “bruciato” o non può essere occupato da nessuno. Insomma, non è da escludere che queste turbolenze sulla Borsa di Istanbul siano “normali” operazioni speculative nel breve, che vengano semmai “utilizzate” per rendere più mansueto un Governo che nel 2013, estinguendo il debito con l’FMI, potrebbe alzare troppo la testa.
 

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