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Commissione d’inchiesta sul Moby Prince. L’audizione di Piero Mannironi

Il 17 dicembre 2015 sono iniziati i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause del disastro del Moby Prince, il traghetto della Navarma finito sulla petroliera Agip Abruzzo la notte del 10 aprile 1991. I morti furono 140. Oscura, a tutt’oggi, la dinamica dell’incidente. L’iter processuale si è risolto di fatto in una denegata giustizia, come per molti «misteri italiani»: nessun colpevole e qualche prescrizione per protagonisti minori della vicenda. Sofismi giuridici, inefficienze, dimenticanze, omissioni, veri e propri sabotaggi hanno impedito una chiara individuazione delle responsabilità. Il giudice di primo grado, che aveva assolto tutti, è stato a sua volta condannato per corruzione in atti giudiziari ai tempi del cosiddetto scandalo «Elbopoli» (speculazioni edilizie sull’isola d’Elba), successivo alla sentenza Moby Prince.

Il libro di riferimento, da settimane sui comodini di molti membri della Commissione, è «Moby Prince, un caso ancora aperto»: 350 pagine zeppe di riferimenti e dati inoppugnabili, del giornalista milanese Enrico Fedrighini.

L’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta, sentita come ultima occasione per rinvenire brandelli di verità dopo tanti anni dalla tragedia, viene più volte auspicata nel libro.

I familiari delle vittime avrebbero forse preferito una Commissione bicamerale, come quelle periodicamente istituite per il «caso Moro», ma si sono dovuti accontentare di una monocamerale, composta esclusivamente da senatori, presieduta da Bachisio Silvio Lai, parlamentare sardo del Pd.

La Commissione naviga senza strepiti nel più assoluto disinteresse della grande stampa; molto dell’esito finale dipenderà dalla possibilità di acquisire, finalmente, i tracciati radar tenuti nascosti dagli americani che proprio a Livorno hanno la grande base militare di Camp Darby.

Gli americani sanno e non parlano. Anzi, tengono un atteggiamento beffardo: affermano di non spiare gli alleati e di non possedere strumenti di rilevazione radar in quella che è una delle più importanti basi Usa nell’Europa meridionale.

Tra le audizioni di particolare interesse, si distingue quella che, il 16 febbraio, ha visto protagonisti i reporter Piero Mannironi e Alberto Testa: il primo in forza a La Nuova Sardegna, il secondo a L’Unione Sarda. Due giornalisti vecchio stampo, che hanno superato brillantemente l’immancabile ordalia della querela (soprattutto Testa).

Per motivi di spazio, ci occuperemo soltanto della «relazione» Mannironi: degli spunti, piuttosto interessanti, forniti da Testa tratteremo in un articolo a parte.

La prima fondamentale questione posta da Piero Mannironi è stata quella del cosiddetto «accecamento» dei radar operanti nella zona, a partire da Poggio Lecceta, proprio nel momento dell’impatto tra Moby Prince e Agip Abruzzo.

«Poggio Lecceta», dice il cronista de La Nuova Sardegna, «è una stazione radar che si trova a un’altezza di 462 metri, a dieci chilometri da Livorno, capace di registrare soprattutto il traffico aereo, ma con una portata tale da monitorare anche il movimento marittimo». La presenza di un cono d’ombra (radar) sull’area in cui è avvenuta la tragedia viene alla luce in una udienza (22 maggio 1996) del processo di primo grado: a scoprire questa strana anomalia, il Pm De Franco (che non parteciperà al processo perché trasferito alla pretura del Lavoro a pochi mesi dal dibattimento) e gli avvocati di parte civile. Il radar registra l’uscita dal porto della nave militarizzata Usa Margareth Lykes, della motonave Adige (che segue per un primo tratto il Moby Prince e devia verso Savona) e del traghetto Golfo degli Ulivi diretto a Olbia. Improvvisamente, proprio nel momento della tragedia, alle 22,25, si verifica il «cono d’ombra» che impedisce di capire cosa stia accadendo nel porto di Livorno.

Mannironi osserva che non esistono fenomeni atmosferici che mandino in panne tutti i radar nello stesso momento: a risultare sospetta è infatti la contemporaneità con l’impatto tra Moby Prince e Agip Abruzzo, quasi si sia trattato di una strategia di oscuramento di tipo militare. 

«Mi è stato detto», dice il giornalista rivolgendosi al senatore Altero Mattioli, «che esistono diversi tipi di oscuramento: per camuffamento e per accecamento. Da un lato c’è la possibilità di una grossa scarica elettromagnetica, che in qualche modo manda in tilt i radar, dall’altro c’è la creazione di falsi bersagli che creano non un accecamento ma un annebbiamento dello scenario».

La vicenda dell’elicottero che sorvola la scena del disastro è paradigmatica per comprendere le bugie raccontate dagli americani.

Sono numerosi i testimoni che a Livorno vedono, e soprattutto sentono, un elicottero sorvolare l’area della collisione: tutti indicano un orario che va dalle 20,40 alle 22,45. L’allarme viene lanciato alle 22,31: «Un lasso di tempo, da un minimo di nove a un massimo di quattordici minuti», osserva Mannironi, tale esclude la possibilità che quell’elicottero fosse lì per coordinare i (mai avvenuti) soccorsi. Un elicottero ha tempi tecnici superiori ai venticinque minuti per essere abilitato al volo e dunque è credibile che quel mezzo fosse già in volo per poi allontanarsi in direzione di Camp Darby. 

Gli americani, interrogati sulla questione, forniscono una singolare risposta: ammettono la presenza di elicotteri a Camp Darby, ma per giustificare la mancata fornitura dei tracciati affermano che dentro la medesima base non esiste nessuna struttura adibita al controllo radar. Difficile credere che gli elicotteri vengano fatti volare alla «cieca», soprattutto quelli militari tenuti a rispettare procedure particolarmente severe.

Altra questione toccata dal giornalista de La Nuova Sardegna è quella del cosiddetto «nastro Canu», documento di eccezionale rilievo che testimonia la vita dentro il traghetto poco prima della collisione: la famiglia Canu (marito, moglie e due figlie piccole, per la prima volta in viaggio verso la Sardegna) gira un piccolo video che si interrompe all’improvviso con un «rumore anomalo, una vibrazione molto forte, cupa, violenta». Forse il momento dell’impatto? Difficile dirlo, ma si scopre una manomissione: qualcuno taglia e incolla il nastro nella parte finale distruggendo una prova forse determinante per capire cosa sia effettivamente successo nel traghetto. 

Esiste, a tutt’oggi, un altro video legato alla tragedia: è quello girato da Nello D’Alesio, operatore portuale molto noto a Livorno. La sera del 10 aprile 1991, filma il mare da terra. Le immagini non sono di buona qualità; il video viene «ripulito» e digitalizzato: un documento importante perché mostra una sagoma scura sul mare e dei bagliori, probabilmente fiamme, collocati dietro la sagoma stessa. C’è chi indica nella silhouette scura la nebbia. Molto più verosimilmente si tratta dell’Agip Abruzzo, ma «questo significa che l’incendio era dietro la petroliera», dice Mannironi: un particolare molto importante perché se la petroliera è stata urtata a dritta, ovvero a destra, l’impatto è avvenuto con il Moby Prince in fase di rientro, evidentemente a seguito di una emergenza. «Il comandante della petroliera, Renato Superina», precisa Mannironi, «in una registrazione sul Canale 16, dice esplicitamente di avere la prua rivolta verso sud, per il semplice motivo che c’era vento di scirocco». Se infatti l’Agip Abruzzo avesse avuto la prua rivolta verso nord, l’impatto sarebbe avvenuto al momento dell’uscita della «Moby» dal porto.

L’ipotesi di una emergenza a bordo, prima dell’impatto, è avallata anche da un dato oggettivo: gran parte dei passeggeri viene trovata nel cosiddetto «salone De Luxe», punto di riunione prescritto per i casi di emergenza: i passeggeri «erano tutti con il giubbino di salvataggio», racconta Mannironi, «e siccome sappiamo che ci vuole del tempo per raccoglierli in questi punti, cosiddetti critici, ovviamente era accaduto qualcosa che aveva portato il comandante Chessa a dare l’ordine che tutti i passeggeri venissero convogliati in una zona cosiddetta sicura».

La posizione reale della petroliera è questione a tutt’oggi controversa.

«Il comandante Superina», dice Manninori, «fornisce addirittura sei o sette posizioni diverse, tanto è vero che una Commissione tecnica, composta da alcuni ammiragli, stabilisce quale fosse il ‘punto nave’ sulla base di un calcolo statistico. In che modo? Nella prima indicazione», prosegue il cronista de La Nuova Sardegna, «Superina fornisce un punto, poi un altro e un altro ancora: sulla base di questi sei punti, la commissione formula un calcolo statistico e indica un punto mediano».

«Per quanto riguarda la questione relativa al punto esatto dove si trovava l’Agip Abruzzo», dice il giornalista, «anche io sono del parere che la prima comunicazione, quella data dal marconista dell’Agip, sia forse quella più vicina alla verità perché nell’immediatezza del pericolo uno vuole essere salvato. Però mi chiedo: se nel processo di primo grado l’Agip risulta dentro il cono di mare in cui era proibito pescare e ormeggiare, per quale motivo non c’è stata iscrizione in procura per il comandante dell’Agip?».

Il tema dei mancati soccorsi al traghetto in fiamme è centrale. Com’è possibile che 140 persone siano morte in una nave, rimasta alla deriva per molte ore, senza che venga tentata alcuna azione di salvataggio?

«L’assenza dei soccorsi», risponde Mannironi, «è agghiacciante. C’è la testimonianza di un vigile del fuoco - mi sembra si chiami Pippan - che prima di mezzanotte si trovava a bordo della motovedetta dove c’era l’ammiraglio Albanese. Pippan doveva andare su una imbarcazione dei vigili del fuoco per partecipare ai soccorsi e rimane stupito del fatto che l’imbarcazione della capitaneria invece girasse in cerchio. Stiamo parlando di tempo perduto e di decisioni non prese».

 «Albanese», dice il cronista, «gira per un tempo indeterminato. Che fosse possibile attivare i soccorsi deriva dal fatto che uno dei membri dell’equipaggio dei rimorchiatori è salito sulla nave alle 3 del mattino per agganciare la cime al fine di rimorchiare il traghetto in porto. La sua testimonianza è chiarissima: non solo c’erano condizioni di sopravvivenza, ma c’erano condizioni normali per metà della nave. I soccorsi erano possibili. C’è quindi una filiera di responsabilità: invece a processo sono andati personaggi obiettivamente di secondo piano, tra cui addirittura un militare di leva».

«Il dato drammatico, tragico e oggettivo», conclude Mannironi, «è che quelle 140 persone sono state lasciate morire. C’è stata una scelta: io non posso credere nella imperizia».

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