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Commissione Moby Prince. L’audizione di Alberto Testa

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul Moby Prince, presieduta dal senatore Silvio Lai, è ormai al lavoro da tre mesi. Senza particolari strepiti, senza l’ansia di dover a tutti i costi giustificare la propria esistenza con rivelazioni eclatanti, ha dato fin qui prova di saper procedere con buona lena forse nel ricordo delle non poche Commissioni parlamentari conclusesi con epiloghi deludenti.

La struttura stessa della Commissione, monocamerale, fatta soltanto da senatori, poteva essere intesa come sintomo di una deminutio del caso Moby Prince rispetto ad altre tragedie della storia repubblicana, ma l’impressione è che i venti componenti guidati da Lai stiano onorando il mandato. Sulle loro spalle un grande fardello: fare luce dove altri soggetti istituzionali via via coinvolti negli anni, a partire dalla magistratura, hanno clamorosamente fallito.

Sono soddisfatti i familiari delle vittime del Moby. Non soltanto per l’inedito interesse mediatico sulla vicenda, ma soprattutto per la particolare sensibilità della Commissione, e forse del Parlamento, nel voler cercare e trovare brandelli di verità sulla più grave tragedia della marineria italiana dal dopoguerra.

Il metodo di lavoro scelto dai commissari è stato spiegato dal senatore Lai in occasione di un incontro pubblico tenutosi recentemente a Cagliari: una procedura d’indagine che dovrebbe favorire la comprensione della dinamica dell’incidente, affrontare il problema dei (mancati) soccorsi, coinvolgendo negli approfondimenti tecnici soggetti istituzionali che non si sono occupati in passato del caso. Lai ha fatto sapere che si potrebbe perfino fare a meno degli indispensabili tracciati radar che di quella notte esistono; pur essendo stati reclamati più volte da inquirenti e mondo politico sono ancora nelle mani degli americani: gli Usa, ben presenti in Toscana con la base di Camp Darby, una delle più grandi del Mediterraneo, tengono un atteggiamento ambiguo, se non beffardo, tendente a negare addirittura il possesso di apparecchiature radar, all’interno della base, capaci di monitorare il porto di Livorno. Una versione non credibile, perché Camp Darby è tuttora una delle basi Usa più importanti del Mediterraneo e la tragedia del Moby Prince si pone in un contesto immediatamente successivo alla prima guerra del Golfo con Livorno crocevia di traffici di ogni genere. Nel frattempo qualcuno avrebbe captato segnali di disponibilità da parte americana a collaborare con le autorità italiane per la risoluzione del caso; per ora si sa che il presidente Lai ha annunciato di voler coinvolgere addirittura il governo italiano nel caso di ulteriori insabbiamenti.

Nei tre mesi di vita della Commissione si sono alternate audizioni di particolare rilievo ad altre deludenti: tra le prime occorre ricordare quella dei giornalisti Piero Mannironi e Alberto Testa, cronisti de La Nuova Sardegna e L’Unione Sarda, sentiti dai commissari lo scorso 16 febbraio.

Delle parole di Mannironi abbiamo già dato conto in un precedente articolo, al quale rinviamo, mentre le dichiarazioni rilasciate da Testa saranno oggetto di questo nuovo pezzo.

Testa non ha portato solo parole o impressioni ma dati certi e verificabili, suffragati da carte. Il giornalista de L’Unione Sarda ha letteralmente travolto i commissari di documenti, fornito indirizzi, seminato riferimenti precisi.

Una volontà di essere ascoltato espressa dalle stesse iniziali parole del giornalista che ha ringraziato una Commissione attesa “come per i familiari delle vittime” da più di vent’anni.

L’audizione si è sviluppata prevalentemente sull’ipotesi di una bomba a bordo. Le indagini, ricorda Testa, si sono a lungo concentrate su questo aspetto potenzialmente deflagrante dal punto di vista giudiziario visto che tutti i reati, a distanza di venticinque anni, sono oramai prescritti tranne quello di strage.

“La tesi dell’esplosione”, ha ripetuto più volte il cronista dell’Unione Sarda, “porta a una diversa qualificazione giuridica del reato: il reato di strage non verrà mai prescritto”.

Chiunque abbia parlato della tesi dell’esplosione, a giudizio di Testa, è incorso in problemi a partire da Alessandro Massari, perito esplosivista della Criminalpol, uno dei più fervidi sostenitori dell’ipotesi “bomba a bordo”: Massari, a detta di Testa, “fu massacrato dai giudici”, perché afflitto da quella che i magistrati definivano ansia da “scoop investigativo”.

Lo stesso pubblico ministero Luigi De Franco aveva ai tempi delle indagini per il primo processo preso atto della presenza di esplosivo a bordo della nave, pur in assenza di timer e innesco. Testa mostra e consegna alla Commissione una intervista fatta al magistrato, datata 17 dicembre 1992, successiva alla seconda perizia del dottor Massari: “La barra del timone”, dice Testa riferendo le parole di De Franco, “è stata trovata con una inclinazione di 30 gradi e ciò significa che c’è stata una virata improvvisa che chiunque avrebbe avvertito al punto da perdere l’equilibrio”. Alessio Bertrand, mozzo napoletano e unico dei sopravvissuti del Moby, non sente che c’è la virata, non sente l’esplosione, “non sente nulla” e De Franco conclude esprimendo grande scetticismo sulla credibilità dell’unico testimone. Quello stesso Bertrand che, dice Testa, “viene sottoposto a una perizia perché chiede all’Inail di avere la pensione di invalidità” a seguito della quale gli viene diagnosticata “una amnesia retrograda irreversibile”.

Un altro ad avere avuto problemi con “la bomba” è Profeta Brandimarte, autore di diverse perizie per conto dei fratelli Chessa (figli del comandante della Moby). Brandimarte, giunto alla conclusione che il traghetto rientrava in porto per una emergenza a bordo sarebbe stato “attenzionato” da alcuni mai identificati soggetti: “Il suo studio, all’epoca in via Delle Lastre 1, a Livorno”, dice Testa, “è stato visitato da ignoti che hanno duplicato i file dove erano stati immagazzinati i dati delle consulenze”. Brandimarte sarebbe pertanto stato costretto a trasferire la sua attività a Marina di Carrara, salvo poi tornare a Livorno dopo molto tempo. 

Rimane il problema del come “inquadrare” la bomba. Un avvertimento? Un attentato? Qualcuno voleva danneggiare la Navarma? “L’11 aprile la nave aveva 140 persone, il 2 e il 3 aprile il Moby Prince era a pieno carico: 1000-1200 persone. Il Moby era rimasto in porto tutto il giorno precedente (alla tragedia, ndr). Quella bomba, di cui sono state trovate tracce è stata messa nella zona delle eliche di prua che poteva conoscere soltanto uno che conosce le navi della Navarma”. “Un giorno Vicenzo Onorato mi portò a Porto Ferraio e mi mostrò nel Moby Vincent proprio la zona delle eliche di prua corrispondente a quella del Moby Prince”, ricorda Testa, “e per scendere mi ero imbratto un giaccone bianco: questo per dire che era difficilissimo arrivare lì”. Insomma, si ragiona sulla possibilità che qualcuno avesse programmato lo scoppio della bomba quando a bordo c’erano “soltanto” 140 persone, “con gli esplosivi che anche allora potevano essere fatti brillare con un telefonino”. “C’è questa esplosione”, dice Testa, “e quindi chi l’aveva programmata prevedeva di non fare grandi danni, con Chessa che è un bravissimo comandante e con la squadra antincendio a bordo”. L’ipotesi di Testa è che chi ha messo la bomba pensasse di fare un danno minimo. “Il problema è sapere chi poteva fare questo”, dice il giornalista dell’Unione sarda, “chi aveva intenzione di farlo e perché”.

Un crinale scivoloso, quello della “bomba a bordo”: due querele per Testa, da parte della famiglia Onorato, poi risolte in una remissione delle stesse. “Il 7 ottobre 1993 mi chiama Vincenzo Onorato”, dice Testa, “che dice di volermi parlare. Mi dice che scrivevo cose interessanti e mi chiede se possiamo organizzare un incontro con lui a Porto Ferraio”. “Onorato mi fece capire che aveva avuto qualche problema con la concorrenza”, dice Testa, “in particolare con Pascal Lotà, che era il patron corso di Corsica Ferries: mi fece vedere una gazzetta marittima nella quale Lotà diceva che ormai bisognava praticamente fare la guerra sui mari. Obiettai che qualcuno che vuole fare un attentato e mette una bomba poi non lo dice ai giornali”. “Onorato svicolava sull’argomento”, afferma Testa, “non diceva direttamente che fossero stati loro, ma aveva dei sospetti e mi fece vedere il cosiddetto trasportato dicendo che da quando era accaduto l’incidente la Corsica ferries era andata avanti mentre la Navarma era andata indietro”.

Circa la questione, decisiva dei ritardi nei soccorsi, Testa porta all’attenzione della Commissione almeno un paio di elementi.

Prima di tutto un rapporto dell’aprile ‘91 redatto da Giuseppe Francese, allora Ispettore generale delle Capitanerie: si tratta di un atto richiesto dal ministro della Marina mercantile Facchiano nel quale si dice che un coordinamento efficace dei soccorsi si è realizzato “non prima delle 5 del mattino del giorno 11”. Praticamente un documento riservato nel quale Francese mette sotto accusa la Capitaneria di Livorno, senza però accusare direttamente l’allora comandante Sergio Albanese. “Questo documento”, dice Testa, “affinché diventasse prova nel processo, doveva essere confermato da Francese che però muore quattro giorni prima di essere ascoltato dal tribunale”.

L’altra questione rilevante, sul tema soccorsi, è il ritrovamento del corpo di Francesco Esposito, barman del Moby Prince. Esposito viene trovato alle 9 del mattino del giorno 11: annegato, non bruciato. Secondo Testa il cadavere fu subito portato al cimitero per non mostrare ai parenti che qualcuno si era salvato dalle fiamme. Come si scopre che il corpo viene rivenuto alle 9 del mattino? “Io mi sono sorbito per ore la copia dei nastri originali di Livorno radio”, dice Testa, “ho ascoltato tutto mentre la perizia sugli stessi nastri si ferma quando il traghetto arriva alla Darsena Petroli alle 7 del mattino”. “Ascoltando i nastri sento che i rimorchiatori del Tito Neri avevano ritrovato un cadavere. Insomma, non risultava agli atti perché avviene alle 9 del mattino. Tutto questo è stato completamente nascosto, i Chessa l’hanno saputo dopo due anni e mezzo. Questo non è volere fare misteri: è una semplice attività che ho svolto e ho ricevuto grande collaborazione da parte del dottor De Franco”.

“Ritengo che anche Rispoli (associazione familiari delle vittime, ndr)”, conclude Testa, “sia stato un po’ ingeneroso quando ha detto che De Franco non era andato avanti. Mi è sembrato, ma può darsi che fosse una mia impressione, che il dottor De Franco avesse il freno a mano tirato: come se qualcuno gli tirasse il freno a mano e avesse difficoltà ad andare avanti”.

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