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Chiesa e riforma del lavoro sotto la veste dell’omofobia

In questi giorni l'attenzione mediatica è concentrata giustamente sulle problematiche del terremoto, sulle problematiche della parata del 2 giugno, sulla visita del Papa nella presunta laica Milano, poco o nulla è stato detto sulla riforma epocale del lavoro come approvata al Senato, nulla, a parte qualche testata di sinistra, è stato detto sulla manifestazione dei beni comuni a Roma del 2 giugno.
 
Il modo in cui funziona l'informazione in questo Paese è noto da tempo, si informa solo e come su ciò che il sistema decide, rinnegando tutti quei principi cardini che dovrebbero garantire il diritto dell'informazione ed all'informazione. Certo quando questo accade in testate private poco si può obiettare, il problema è quando ciò si realizza nel servizio pubblico.
 
Tanto detto veniamo al dunque di una questione a dir poco scandalosa.
Che dovrebbe recare indignazione diffusa specialmente in un Paese che si dice essere democratico e pretende che questo modello di democrazia venga diffuso in altri Paesi e realtà anche extra-continentali.
Il Papa a Milano ha dichiarato: "Chiamata a essere immagine del Dio unico in tre persone non è solo la Chiesa, ma anche la famiglia, fondata sul matrimonio tra l'uomo e la donna".
 
Omofobia pura pronunciata non solo da un cattolico, ma specialmente da un Capo di uno Stato estero quale quello del Vaticano che ancora una volta pretende di inculcare concetti e dottrine agli italiani.
Come avevo annunciato nello scritto alcune chicche sulla riforma del lavoro, tra le chicche ne evidenziavo specialmente una, riprendo il passaggio: "Altra chicca in negativo ovviamente è che si specifica la nullità del licenziamento intimato in caso di matrimonio tra uomo e donna, e si specifica tra uomo e donna, giusto per non lasciare trapelare dubbi, le coppie di fatto o quelle omosessuali in Italia non devono avere diritti".
 
La normativa oggi esistente in caso di nullità di licenziamento discriminatorio, vedi il codice delle pari opportunità (art. 35, commi 1 e 2, D.lgs 198 del 11 aprile 2006) che richiama la legge 9 gennaio 1963, n.7, articoli 1, 2 e 6, ha espressamente stabilito che sono nulle le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi o nei regolamenti, che prevedono il licenziamento delle lavoratrici, dipendenti da imprese private di qualsiasi genere, escluse quelle addette ai servizi familiari e domestici, sia a quelle dipendenti da enti pubblici, a causa del matrimonio.
 
Se leggiamo il solo articolo 29 della Costituzione lì ove specifica che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, è indirettamente ed implicitamente non escluso il diritto costituzionale alla famiglia per le coppie omosessuali e non solo.
 
Da un lato hai una Chiesa che riconosce il diritto alla famiglia solo se questa nasce da matrimonio tra uomo e donna e dall'altro una riforma sul lavoro che legittima la discriminazione del licenziamento comminato in concomitanza di un matrimonio non consumato tra uomo e donna.
Una riforma del lavoro omofobica.
 
Per esempio chi si sposa in paesi ove questo matrimonio è possibile, e lavora in Itlalia, in base al nuovo dettato normativo che ancora deve essere approvato dalla Camera, rischia di non avere tutele in tal senso.
D'altronde ciò non deve recare stupore visto che un rapporto dell'istituto danese per i diritti umani nel 2009 affermava che L'Italia è il paese dell'Unione Europea con il maggior tasso di omofobia sociale, politica ed istituzionale.
 
Deve invece stupire il silenzio assordante di tutti, dai media alla cittadinanza in genere.
Se prima non sapevano, ora non possono dire di non sapere.

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