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Chi ha scordato il rischio di tasso

La stretta delle banche centrali mette alle corde molte aziende controllate da fondi di private equity, riempite di debito a tasso variabile senza protezione da rialzi, come fossero sprovveduti mutuatari

 

Le banche centrali sembrano tenere il punto: l’inflazione scende con lentezza esasperante, i rischi di spirali prezzi-salari restano in essere e in alcuni casi (Regno Unito) si stanno materializzando, alcune variabili dell’equazione, come i prezzi di energia e materie prime agricole, restano sottoposte a tensioni geopolitiche e climatiche. Per questi ed altri motivi, i tassi non hanno ancora terminato la loro marcia al rialzo. Lo ha detto Jerome Powell, lo conferma a ogni pie’ sospinto Christine Lagarde, lo ha ribadito proprio ieri Bank of England, alle prese con un’inflazione britannica piuttosto perniciosa, con una mossa che odora di panico o comunque di forte ansia.

Quindi, tassi in su, ancora. Per quanto tempo, non è dato sapere, al netto dei soliti vaticini e divinazioni da pizia con cui si esprimono banchieri centrali che sono in balia degli eventi, come si era intuito da tempo. La fase di rialzo dei tassi potrebbe essere interrotta da qualche crepa di sistema, che causa crolli. Tra i sospettati principali: l’immobiliare commerciale, su entrambi i lati dell’Atlantico. Oppure i portafogli titoli delle banche commerciali, con minusvalenze su obbligazioni che rischiano di non essere più contenute nella categoria “sterilizzata” dei titoli detenuti sino a scadenza, e quindi contabilizzati a costo storico e non di mercato.

RISCHIO DISSESTI PER ECCESSO DI DEBITO

La stretta monetaria rischia di causare una serie di dissesti aziendali, dove a cadere per prime sarebbero le imprese più indebitate. In questa categoria si trovano anche molte aziende controllate dai fondi di private equity. Acquisite spesso con la tecnica del leveraged buyout, dove cioè l’azienda-preda viene riempita di debito, che deve poi provvedere a ripagare mediante i risparmi di costo e lo sviluppo dei ricavi conseguenti alla “cura” decisa dal fondo di private equity, prima di essere rivenduta con profitto. Spesso tali aziende vengono indebitate anche per pagare un dividendo straordinario alla controllante. Si chiama, in perfetta neolingua orwelliana, dividend recapitalization, dove a essere “ricapitalizzati” sono gli azionisti.

Sin quando il mondo ha potuto cullarsi con tassi prossimi allo zero o negativi, queste operazioni erano quasi sempre di tutto riposo per i fondi. Una macchina da soldi, anche per le banche d’affari che mettevano in piedi le acquisizioni. Poi, arrivò la stretta monetaria. O meglio, arrivò una stretta monetaria di intensità mai vista in decenni. E molti fondi di private equity sono stati presi in contropiede per aver deciso di non coprire il rischio di tasso sul debito delle controllate.

Fatte le debite proporzioni, sembrano le tristi storie di famiglie che accendono un mutuo a tasso variabile con i tassi ai minimi storici, zero o negativi. E ora sono in guai seri. Tuttavia, la differenza tra un mutuatario e questi Master of the Universe dei fondi di private equity dovrebbe essere piuttosto marcata, in termini di capacità di analisi e previsione. Pare di no, alla fine.

I numeri variano a seconda delle fonti ma è utile sapere che i debiti che tipicamente vengono contratti da aziende a basso merito di credito, i cosiddetti leveraged loans, sono a tasso variabile. Secondo una stima di Bank of America, che tuttavia cita dati aggiornati allo scorso agosto, negli Stati Uniti i tre quarti di debito a tasso variabile acceso durante il boom dei leveraged buyout era privo di forme di copertura. In Europa, il 70% dei debiti di questa tipologia restava esposto ai tassi alla fine dello scorso gennaio, secondo stime di Man Group Plc.

È ovviamente del tutto possibile che quelle percentuali siano scese, nel frattempo. Se così non fosse, o se la percentuale di copertura fosse limitata, il rischio è quello di ondate di dissesti aziendali che avrebbero impatto sui fondi di private equity e sui loro investitori, sui lavoratori delle aziende coinvolte e sul sistema bancario (o di shadow banking) che tali prestiti ha concesso.

Una indagine di Bloomberg ha portato alla luce alcuni casi di questo dissesto da leva a debito e mancata copertura. Ad esempio, in Nord America, la spesa per interessi dell’azienda mediana controllata da private equity ha raggiunto nel 2022 il 43% del margine operativo lordo (Ebitda), secondo uno studio che ha analizzato 350 imprese del genere che sono a loro volta quotate o che hanno debito scambiato pubblicamente. Una grandezza pari a sei volte la mediana delle società dell’indice S&P 500. Con queste metriche, l’assenza di tempestive coperture rischia di essere esiziale. Procedere a coprire oggi il rischio di tasso, ad esempio con opzioni cap, può costare sino a 200 volte quanto sarebbe costato nel 2020.

Nel Regno Unito, la catena di supermercati Wm Morrisons, controllata dal 2021 dal fondo di private equity CD&R, sino allo scorso settembre risultava priva di coperture sui tassi, secondo l’agenzia di rating Moody’s. In seguito, l’azienda avrebbe coperto il 45% dell’esposizione debitoria a tasso variabile. Ma anche in tal modo, secondo Moody’s, nell’ultimo anno fiscale ha sostenuto una spesa per interessi passivi di 375 milioni di sterline, a fronte di un margine operativo lordo di 828 milioni. Il tutto mentre cerca di competere e frenare i prezzi nei propri supermercati, mentre tira costosissime linee di credito per reggere agli aumenti dei costi.

COSTI DI INTERESSE ALLE STELLE

Negli Stati Uniti, il tasso medio sui leveraged loans è schizzato da poco meno del 4% di inizio 2021 al 10% attuale, secondo un indice calcolato da Morningstar.

Secondo un altro studio, realizzato da una società statunitense di rating creditizi, su un database di 2.000 aziende non quotate e di media dimensione, oltre 300 non saranno in grado di servire il proprio debito, e dovranno intraprendere percorsi di ristrutturazione o chiudere.

Ovviamente, non tutte le aziende in pre-dissesto per il rialzo dei tassi appartengono a fondi di private equity, ma molte aziende in portafoglio a tali fondi, acquisite mediante operazioni di buyout, quelle in cui la preda mette i soldi a debito e il predatore incassa, sono a rischio per mancata, parziale o tardiva copertura del rischio di tasso d’interesse. E con esse, l’economia reale.

Prosegue dunque il ruvido risveglio da una fase di ribasso storico dei tassi, e della relativa ubriacatura di debito. Ma, occorre dire, è interessante la mancata gestione del rischio di tasso da parte di molti fondi di private equity. Forse sono stati sviati dalle posizioni delle banche centrali sulla “transitorietà” dell’inflazione e, quando sono iniziati i rialzi dei tassi, hanno continuato a sposare quella tesi? Comunque sia, sarà un problema. Tranne che per i fondi di distressed debt e affini, quelli che nell’ecosistema finanziario hanno il ruolo di monatti.

 

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