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Charlie Hebdo e la libertà di criticare la religione

La strage di Parigi ha innescato un dibattito mondiale sulla libertà di espressione. Sulla necessità di proteggerla, ma anche sui suoi limiti. C’è chi vede nei vignettisti del Charlie Hebdo degli esempi da seguire e chi, sulla scia del papa, li ritiene degli estremisti che se la sono andata a cercare esagerando nell’attaccare i sentimenti di altri estremisti.

È un dibattito fondamentale, quello in corso. Perché in gioco c’è per l’appunto un diritto umano fondamentale, la base stessa della nostra civiltà. Si comprende benissimo, ma fa male lo stesso, la decisione di Luz di non raffigurare più Maometto.

Ma mette molto più disagio il libro Qui est Charlie? dello storico francese Emmanuel Todd, in cui sostiene che la grande manifestazione dell’11 gennaio è stata una specie di impostura, una sorta di dichiarazione di guerra anti-islamica a cui non hanno infatti partecipato né fedeli musulmani, né i residenti nelle banlieues: si è dovuto spendere Manuel Valls in persona per rispondergli.

Qualcosa di simile è accaduto anche negli Usa, dove il prestigioso Pen Club ha deciso di assegnare il premio annuale per il coraggio mostrato nella libertà di espressione proprio al Charlie Hebdo: scatenando così le proteste di diversi scrittori che ne fanno parte, perché vignettisti “dediti a caricature grossolane e alla presa in giro della religione” non dovevano in alcun modo essere premiati. Gary Trudeau, il notissimo disegnatore di Doonesbury, ha a sua volta attaccato il giornale perché avrebbe preso di mira una “religione di poveri”. Si critica l’islamofobia e si fa capire che, sotto sotto, c’è anche del razzismo.

Il dibattito non è nuovo: si pensi, già due anni fa, al pesantissimo confronto tra il giornalista Glenn Greenwald (quello del caso Snowden) e il new atheist Sam Harris. Ma si va intensificando. È un confronto tutto interno al mondo liberal e di sinistra già individuato da Michel Houellebecq in Sottomissione, laddove parla della contrapposizione tra “laici” e “antirazzisti”. Tra chi pensa che la laicità sia un valore universale da difendere a ogni costo e chi ritiene che, al contrario, sia necessario innanzitutto tutelare i sentimenti religiosi di masse diseredate. Tra chi, come il sopravvissuto alla strage Gérard Biard, ritiene che “scioccarsi fa parte del dibattito democratico, essere uccisi no”, e chi, in nome del politically correct, pensa che si debbano porre limiti alla libertà di espressione.

Nel frattempo, però, in un paese arabo non certo diseredato come l’Arabia Saudita il libero pensatore Raif Badawi continua a restare in carcere, condannato giusto un anno fa a dieci anni e mille frustate. Mentre in paese non certo ricco come è il Bangladesh, in cui la laicità è tuttavia un valore costituzionale – un paese dove la scrittrice Taslima Nasreen, premio Sakharov per la libertà di pensiero, è costretta all’esilio dal 1994 (e c’è pure una taglia sulla sua testa) – è in atto una vera e propria mattanza di blogger atei. Ne sono stati uccisi tre in soli tre mesi: dopo Avijit Roy e Wasjiqur Rahman, è toccato ad Ananta Bijoy Das, trucidato per strada a colpi di machete mentre si recava a lavorare in banca.

Nulla di strano. Due anni fa, nella capitale Dhaka, si svolse una gigantesca manifestazione di massa degli islamisti: che dunque non sono affatto, come spesso si sente dire, una “piccola minoranza non significativa”. I partecipanti chiesero che i blogger atei fossero condannati a morte.

Non è accaduto, e si sono fatti giustizia da soli. L’assenza di limiti alla “loro” libertà di espressione si è drammaticamente tradotta nella convinzione di non avere alcun limite. Nei giorni scorsi Ananta Bijoy Das era stato invitato in Svezia dalla sezione locale del Pen Club per parlare di persecuzioni contro gli atei, ma gli era stato rifiutato il visto. “C’era il rischio che non sarebbe tornato in patria”, dicono ora all’ambasciata. Ora il rischio, ammesso che ci fosse, non c’è più.

Burocrati dei visti che non sanno distinguere un autentico perseguitato da un jihadista. Politici alla Ed Miliband che vogliono criminalizzare la critica all’islam. E tanti intellettuali sensibili a qualunque sentimento delle “masse diseredate”.

Mi sbaglierò, ma non li ho visti spendere alcuna parola per chi, solo contro quasi tutti, cerca di accendere il lume della ragione in società paurosamente arcaiche. Marcisca in silenzio, quel che resta dei corpi di Avijit, Wasjiqur e Ananta. E di coloro che presto li seguiranno.

Raffaele Carcano, segretario Uaar

Questo articolo è stato pubblicato qui

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